Coty è titolare di licenza sul marchio Ue Davidoff, per profumi
Nel 2014 Coty scopriva che su internet veniva venduto un profumo in contraffazione.
Sembra di capire -ma non è detto in modo chiaro- che tali flaconi provenissero dalla nota casa profumiera, ma che avessero avuto un’iniziale destinazione extraeuropea: per cui su di essi non era si era verificato il c.d. esaurimento del diritto, paragrafo 10.
La non applicazione dell’esaurimento alle merci provenienti dal di fuori della UE costitusice ormai diritto vivente, anche se privo di fondamento sicuro.
La CG precisa che venditore era un soggetto a terzo, non Amazon stesso: il quale aveva il mero ruolo di depositario e poi di spedizioniere per conto della venditrice, paragrafo 10
Coty invitava Amazon a rimetterle tutti i flaconi di profumo. Scopriva poi che una parte di questi erano di proprietà di un diverso venditore e chiedeva ad Amazon di indicarglielo. Amazon rispondeva di non essere in grado di fare ciò, paragrafo 11 (non è detto se perchè priva di informazioni o perchè impedita giuridicamente dal fornirle).
La società che gestiva il deposito era Amazon FC graben, paragrafo 9.
Coty cita dunque in giudizio sia Amazon Service Europe che Amazon FC Graben, ritenendo che avessero violato il diritto sul marchio controverso. In particolare chiedeva che fossero condannate ad astenersi dallo stoccaggio dallo spedire o a farsi toccare o a far spedire in Germania nel commercio profumi recanti il marchio Davidoff Hot Water, qualora non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso (paragrafo 12)
Il quesito sollevato dal BGH Bundesgerichtshof è il seguente : <<Se una persona che conserva per conto di un terzo prodotti che violano un diritto di marchio, senza essere a conoscenza di tale violazione, effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui solo il terzo, e non anche essa stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti».>>, paragrafo 18
Dagli atti dunque risulta che Amazon si limitasse al magazzinaggio senza averli offerti in vendita o averli messi in commercio essa stessa e nemmeno intendesse farlo in futuro, paragrafo 34
Bisogna allora capire se questa operazione costituisca un <uso> ai sensi dell’articolo 9 paragrafo 1 regolamento 207: in particolare se configuri uno <<stoccaggio>> ai sensi del 9 paragrafo 2 lettera B.
La risposta è negativa: non costitusice stoccaggio.
La Corte dice che il verbo <usare> implica un comportamento attivo e un controllo sull’atto che costituirebbe <uso>. Del resto nell’elenco il § 2 fa uso di comportamenti attivi da parte del terzo, paragrafo 37: solo un terzo, che ha il controllo diretto e indiretto sull’atto che costituisce l’uso, è in grado di cessare tale uso e quindi conformarsi al divieto , paragrafo 38.
La corte ha anche precisato che l’uso vietato implica che l’uso avvenga nell’ambito della comunicazione commerciale del soggetto accusato, paragrafo 39
Ne consegue che <<affinché il magazzinaggio di prodotti rivestiti di segni identici o simili a marchi possa essere qualificato come «uso» di tali segni, occorre pure, come rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 67 delle sue conclusioni, che l’operatore economico che effettua tale magazzinaggio persegua in prima persona le finalità cui si riferiscono tali disposizioni, che consistono nell’offerta dei prodotti o nella loro immissione in commercio>> , paragrafo 45
A dire il vero il tenore letterale dell’articolo 9 paragrafo 2 in particolare lettera B del regolamento 207 non dice questo: nè parrebbe n prima battuta desumibile.
Astrattamente potrebbe ritenersi che l’esclusiva si estendesse anche alla condotta di chi, pur non sapendo, pone in essere atti strumentali all’atto successivo, che veramente è più significativamente lede gli interessi economici del titolare del marchio (la vendita)..
Tuttavia le altre condotte elencate nel medesimo paragrafo 2 lasciano forse intendere che giuridicamente risponde delle stesse solo chi ne fruirà e cioè chi hai il potere di deciderle: questi due aspetti di solito vanno assieme, anche se la realtà potrebbe essere meno semplice dell’ipotesi teorica.
Nel caso sub iudice il giudice del rinvio aveva indicato <<senza ambiguità che non hanno esse stesse offerto in vendita i prodotti di cui trattasi né li hanno immessi in commercio, precisando, anzi, nel testo della sua questione, che è solo il terzo che intende offrire i prodotti o immetterli in commercio. Ne consegue che esse non fanno, di per sé, uso del segno nell’ambito della loro comunicazione commerciale>>, p .47.
Sì badi però che il quesito sottoposto alla CG prevedeva l’ipotesi in cui il depositario non fosse a conoscenza della violazione.
Le cose possono dunque cambiare se il depositario è invece a conoscenza della violazione: in questo caso è difficile evitare la qualificazione giuridica di <<compartecipe nell’illecito>>.
Tale evenienza è al confine tra diritto nazionale e diritto europeo, dal momento che la responsabilità civile generale non è armonizzata, ma solo quella derivante dal diritto dei marchi. Allora sorge il problema del se un depositario, consapevole della natura contraffattoria delle merci ricevute in deposito, sia responsabile e se lo sia solo in base alle norme nazionali di responsabilità civile (da noi art. 2055) oppure direttamente in base alle tutele previste nella disciplina del marchio (armonizzata).
Del resto nella disciplina degli internet service provider, si dice che , quanto alla soggezione ad injunctions/ininibitoria, siano responsibile anche se non liable.
Cioè il concorso in materia armonizzata è di competenza della UE o del diritto statale? O ancora, quale è il profilo soggettivo della violazione di marchio (o design, o dirito d’autore)? rileva solo per il risarcimento del danno o per qualunque misura (anche per l’inibitoria)?
la Corte accenna a qualcosa del genere al paragrafo 49
Coty poi aveva chiesto alla CG di dire se un tale depositario potesse fruire del Safe Harbor previsto dall’articolo 14 paragrafo 1 della direttiva sul commercio elettronico numero 31 del 2000 paragrafo 50: la risposta sarebbe stata in astratto positiva, ricorrendone i requisiti.
Ma tale domanda non rientrava in quella pregiudiziale sollevata dal BGH e dunque non viene esaminato dalla CG.
In sintesi e operativamente i depositari possono stare tranquilli qualora nulla sappiano della liceità o meno a delle merci ricevute in deposito. Entrano invece in acque incerte quando abbiano conoscenza certa o presunta dell’iliceità.
La Corte di Giustizia (poi solo CG) 4 marzo 2020, C-328/18 P, EUIPO c. Equivalenza Manufactory SL di Barcellona, impartisce alcuni insegnamenti su come va condotto il giudizio di assenza/presenza di novità in relazione ad un marchio precedente.
La norma rilevante ratione temporis è quella di cui all’articolo 8 paragrafo 1 lettera B del regolamento 207/2009 : <<In seguito all’opposizione del titolare di un marchio anteriore, il marchio richiesto è escluso dalla registrazione se: …; b) a causa dell’identità o della somiglianza di detto marchio col marchio anteriore e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi per i quali i due marchi sono stati richiesti, sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione con il marchio anteriore.>>
Si vedano i due marchi in conflitto (§§ 5 e 9):
e
In pratica l’unico elemento comune è quello denominativo (Label/Labell).
I prodotti di riferimento erano identici (profumi). Il marchio anteriore era oggetto di registrazione internazionale, mentre quello posteriore era un marchio depositato all’EUIPO come marchio dell’UE (§§ 5 e 9).
L’opponente (titolare del marchio anteriore) ottiene ragione in entrambe le fasi amministrative, ma soccombe nella successiva impugnazione davanti al Tribunale UE, paragrafi 12- 16.
Il motivo di ricorso alla CG è unico ma concerne quattro profili (non chiara la distizione tra motivo unico in quattro profili e quattro motivi).
Circa il primo, la CG ribadisce che il vizio di motivazione contraddittoria/insufficiente è una questione di diritto in fase impugnatoria, paragrafo 25; ed allora accoglie il motivo per motivazione contraddittoria, paragrafo 30
Nulla dico sul secondo profilo, poco significativo.
Sul terzo e sul quarto, invece, si concentrano gli insegnamenti più importanti.
La censura dell’EUIPO consiste nell’addebitare <<al Tribunale di aver violato l’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009 in ragione di un errore metodologico, in quanto ha esaminato le condizioni di commercializzazione dei prodotti in causa e le abitudini di acquisto del pubblico di riferimento nella fase della valutazione della somiglianza dei segni confliggenti.>>, paragrafo 42.
Inoltre l’ufficio muove un’altra censura: <<il Tribunale ha commesso un errore di metodo in quanto ha neutralizzato la somiglianza fonetica media dei segni in conflitto nella fase di valutazione della somiglianza di tali segni e ha abbandonato prematuramente qualsiasi valutazione globale del rischio di confusione.>>, par. 47.
Cioè: – le condizioni di commercializzazione non possono incidere nel giudizio di somiglianza tra segni; – la compensazione tra la distanza concettuale e la vicinanza visivo-fonetica non può avvenire solo nella fase di giudizio di somiglianza tra segni ed essere ad abbandonata nella fase del giudizio complessivo di confondibilità, come invece successo nel caso specifico, ove è stata prematuramente abbandonata, paragrafo 47 ss.
Ebbene, la CG inizia ribadendo:
– che per costante propria giurisprudenza <<l’esistenza di un rischio di confusione per il pubblico deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie […], tra i quali figurano in particolare il grado di somiglianza tra i segni in conflitto e tra i prodotti o i servizi designati in causa, nonché l’intensità della notorietà e il grado del carattere distintivo, intrinseco o acquisito mediante l’uso, del marchio anteriore […]>>Paragrafo 57;
– che <<la valutazione globale del rischio di confusione deve fondarsi, per quanto riguarda la somiglianza visiva, fonetica o concettuale dei segni in conflitto, sull’impressione complessiva da essi prodotta. La percezione dei segni da parte del consumatore medio dei prodotti o dei servizi di cui trattasi svolge un ruolo determinante nella valutazione globale di tale rischio. A questo proposito, il consumatore medio percepisce di norma un marchio come un tutt’uno e non effettua un esame dei suoi singoli elementi >>, paragrafo 58;
– che <<questa valutazione globale del rischio di confusione implica una certa interdipendenza tra i fattori che entrano in considerazione e, in particolare, la somiglianza dei segni confliggenti e quella dei prodotti o dei servizi in oggetto. Così, un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi in causa può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i segni in conflitto e viceversa>> , paragrafo 59.
Ribadite queste tre regole, comunemente accettate, arriva la parte più interessante.
Per la CG , <<in assenza di qualsiasi somiglianza tra il marchio anteriore e il segno di cui è richiesta la registrazione, la notorietà o la rinomanza del marchio anteriore, l’identità o la somiglianza dei prodotti o servizi considerati non sono sufficienti per constatare un rischio di confusione […]. Di conseguenza, tale disposizione è manifestamente inapplicabile quando il Tribunale esclude qualsiasi somiglianza tra i segni in conflitto. È soltanto nell’ipotesi in cui tali segni presentino una certa somiglianza, ancorché tenue, che spetta al suddetto giudice procedere a una valutazione globale al fine di stabilire se, nonostante il tenue grado di somiglianza esistente tra di essi, la presenza di altri fattori pertinenti, quali la notorietà o la rinomanza del marchio anteriore, possa dar adito a un rischio di confusione per il pubblico di riferimento (v., in tal senso, sentenza del 24 marzo 2011, Ferrero/UAMI, C‑552/09 P, EU:C:2011:177, punti 65 e 66, nonché la giurisprudenza citata).>>, § 60.
Cioè, stando alla disposizione citata, il giudizio complessivo di …….
E’ in base a questa giurisprudenza che per il tribunale i segni non erano simili secondo un’impressione generale, mancando una delle due condizioni previste dall’articolo 8 comma 1 lettera B del regolamento 207: con conseguente errore dell’ufficio nell’affermare il rischio di confusione., paragrafo 61.
Il tribunale era giunto a questa conclusione con un ragionamento in due fasi: dopo aver detto che i segni presentavano un grado medio di somiglianza fonetica pur essendo visivamente e concettualmente dissimili (paragrafo 63), aveva però <aggiunto chje <<tenuto conto delle condizioni di commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, l’aspetto visivo dei segni in conflitto, riguardo al quale tali segni erano diversi, era più importante per valutare l’impressione complessiva da essi prodotta rispetto agli aspetti fonetico e concettuale di tali segni. Inoltre, al punto 54 di tale sentenza il Tribunale ha rilevato che i segni in conflitto erano concettualmente diversi in virtù della presenza, nel segno per il quale si chiede la registrazione, degli elementi «black» e «by equivalenza»>>., § 65.
In breve l’aspetto visivo prevaleva su quello concettual-fonetico, tenuto conto delle condizioni di commercializzazione: e il profilo visvivo portava ad una differenziazione tra i segni (incrementata da una differenziazione anche concettuale paragrafo 65 seconda parte chiuso la parentesi). per questo Il tribunale ha rinunciato ad effettuare la valutazione complessiva del rischio di confusione richieta dalla norma (<<ll marchio richiesto è escluso dalla registrazione se: …b)a causa dell’identità o della somiglianza … sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato>>) dal momento che i marchi non erano similia prevalenza dell’elemento visivo -preonerante alal luce delle circoszante in c ui è commercialzizato- e concettuale paragrafo 66-.
La censura su questo modo di ragionare è duplice.
La Corte ricorda che <<al fine di valutare il grado di somiglianza esistente tra i segni confliggenti, occorra determinare il loro grado di somiglianza visiva, fonetica e concettuale e, eventualmente, vagliare la rilevanza che occorre attribuire a questi diversi elementi, tenendo conto della categoria di prodotti o di servizi di cui trattasi o delle condizioni in cui essi sono messi in commercio (sentenze del 22 giugno 1999, Lloyd Schuhfabrik Meyer, C‑342/97, EU:C:1999:323, punto 27, e del 12 giugno 2007, UAMI/Shaker, C‑334/05 P, EU:C:2007:333, punto 36).>>, Paragrafo 68.
Però ci sono state applicazioni giurisprudenziali divergenti nei vari stati. Pertanto La Corte ribadisce o insegna: <<sebbene le condizioni di commercializzazione costituiscano un fattore rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, la loro considerazione rientra nella fase della valutazione globale del rischio di confusione e non in quella della valutazione della somiglianza dei segni in conflitto.>>, paragrafo 70.
Infatti <<la valutazione della somiglianza dei segni in conflitto, che costituisce solo una delle fasi d’esame del rischio di confusione ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, comporta il confronto dei segni in conflitto onde determinare se tali segni presentino un grado di somiglianza su uno tra i piani visivo, fonetico e concettuale. Per quanto tale confronto debba fondarsi sull’impressione complessiva che detti segni lasciano nella memoria del pubblico di riferimento, esso deve cionondimeno essere operato alla luce delle qualità intrinseche dei segni in conflitto (v., per analogia, sentenza del 2 settembre 2010, Calvin Klein Trademark Trust/UAMI, C‑254/09 P, EU:C:2010:488, punto46).>>, paragrafo 71.
A sostegno di questa affermazione la CG ricorda che <<tenere conto delle condizioni di commercializzazione dei prodotti o servizi coperti da due segni confliggenti ai fini del confronto di tali segni potrebbe sfociare nell’assurdo risultato che i medesimi segni potrebbero essere qualificati come simili o diversi in funzione dei prodotti e servizi che riguardano e delle condizioni in cui questi ultimi sono commercializzati.>>, paragrafo 72.
Ne segue quindi che Il tribunale ha sbagliato laddove ha preso <<in considerazione, ai punti da 48 a 53 e 55 della sentenza impugnata, le condizioni di commercializzazione dei prodotti in causa nella fase di valutazione della somiglianza dei segni in conflitto nel loro insieme e facendo prevalere, in ragione di tali condizioni, le differenze visive tra tali segni rispetto alla loro somiglianza fonetica.>>, paragrafo 73
In secondo luogo il tribunale ha sbagliato nell’effettuare la compensazione tra l’elemento concettuale da una parte e quello fonetico-visivo dall’altra.
Secondo la giurisprudenza addotta dalla Corte infatti <<la valutazione globale del rischio di confusione implica che le differenze concettuali tra i segni confliggenti possano neutralizzare determinate somiglianze fonetiche e visive tra tali due segni, purché almeno uno di questi segni, per il pubblico di riferimento, rivesta un significato chiaro e determinato, tale che questo pubblico possa coglierlo direttamente (sentenze del 18 dicembre 2008, Les Éditions Albert René/UAMI, C‑16/06 P, EU:C:2008:739, punto punto 98; v. altresì, in tal senso, sentenze del 12 gennaio 2006, Ruiz-Picasso e a./UAMI, C‑361/04 P, EU:C:2006:25, punto 20, e del 23 marzo 2006, Mülhens/UAMI, C‑206/04 P, EU:C:2006:194, punto 35)>>, § 74.
Secondo i propri precedenti infatti <<la valutazione delle condizioni per tale neutralizzazione si integra nella valutazione della somiglianza dei segni in conflitto dopo la valutazione dei gradi di somiglianza sui piani visivo, fonetico e concettuale. Va tuttavia precisato che questa considerazione è intrinsecamente connessa all’ipotesi, eccezionale, in cui almeno uno dei segni in conflitto possieda, dal punto di vista del pubblico di riferimento, un significato chiaro e definito che possa essere direttamente colto da quel pubblico. Ne consegue che è solo se ricorrono tali condizioni che, conformemente alla giurisprudenza citata al punto precedente della presente sentenza, il Tribunale può risparmiarsi la valutazione globale del rischio di confusione per il fatto che, a causa delle marcate differenze concettuali tra i segni in conflitto e del significato chiaro, definito e direttamente intellegibile per il pubblico di riferimento di almeno uno di tali segni, questi ultimi producono un’impressione complessiva diversa, nonostante l’esistenza, tra di essi, di taluni elementi di somiglianza sui piani visivo o fonetico.>> § 75.
Di conseguenza , quando entrambi i segni confliggenti mancano di questo significato chiaro, <<definito e direttamente intellegibile per il pubblico di riferimento, il Tribunale non può procedere a una neutralizzazione omettendo un’analisi globale del rischio di confusione. In tal caso, invece, detto giudice è tenuto a effettuare un’analisi globale di tale rischio, tenendo conto di tutti gli elementi di somiglianza e di differenza individuati allo stesso titolo di tutti gli altri elementi rilevanti, come il grado di attenzione del pubblico di riferimento (v., in tal senso, sentenza del 12 gennaio 2006, Ruiz-Picasso e a./UAMI, C‑361/04 P, EU:C:2006:25, punti 21 e 23) o il grado di carattere distintivo del marchio anteriore.>>, paragrafo 76
In conclusione il tribunale ha sbagliato, <<quando ha inteso neutralizzare la somiglianza dei segni in conflitto sul piano fonetico alla luce della loro dissomiglianza concettuale e ha rinunciato all’analisi globale del rischio di confusione, pur non avendo affatto constatato, e neppure verificato, che nel caso di specie almeno uno dei segni in questione avesse un significato chiaro e definito per il pubblico di riferimento tale che quest’ultimo potesse coglierlo direttamente.>> para 77
Pertanto alla luce di questo vizio e di quello di motivazione contraddittoria, la sentenza del Tribunale va annullata, § 79.
Nell’ultima parte della sentenza La Corte procede al giudizio di merito: è infatti ammesso dal suo Statuto (articolo 61 comma 1) quando lo stato degli atti lo permetta
Qui la CG applica al caso specifico gli insegnamenti contenuti nella prima parte della sentenza, per cui su questa parte non mi trattengo: anche se non è priva di intresse, come sempre quando i principi astratti vengono applicati al caso concreto.
Mi limito a ricordare che l’esito dello ius dicere sostitutivo operato dalla CG è stato quello di confermare il giudizio di confondibilità dell’EUIPO, quindi rigettando l’impugnazione proposta di Equivalenza Manufactory, del §§ 101-103.