La antica questione circa la traslatività o dichiaratività dello scioglimento della comunione ereditaria è stata sciolta dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza in oggetto (rel.: Lombardo):
La fattispecie riguardava immobili abusivi costruiti tra il 1970 e il 1976, per cui si applicava ratione temporis l’art. 40.2 dell L. 47/1985 secondo cui:“”Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’art. 31 ovvero se agli stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e non siano indicati gli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione di cui al comma 6 dell’art. 35. Per le opere iniziate anteriormente al 1 settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia può essere prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, ai sensi e per gli effetti della L. 4 gennaio 1968, n. 15, art. 4, attestante che l’opera risulti iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967” (§ 2)
Si badi che nella norma successiva (art. 46 c.1 dpr 380/2001), che ha sostituito quella citata, lo scioglimento delle comunioni è espressamente contemplato.
Il motivo di ricorso in Cassazione sottoponeva le seguenti due questioni di diritto collegate tra di loro : <<innanzitutto … si tratta di stabilire se, tra gli atti tra vivi per i quali la L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, commina la sanzione della nullità al ricorrere delle condizioni ivi previste, debbano ritenersi compresi o meno gli atti di scioglimento delle comunioni (“prima questione di diritto”). Ove la risposta a tale questione risulterà positiva (ove cioè debba ritenersi che lo scioglimento delle comunioni sia ricompreso tra gli atti tra vivi per i quali la L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, commina la sanzione della nullità), si tratterà di risolvere un’altra conseguente questione di diritto: se possano considerarsi atti inter vivos, come tali soggetti alla comminatoria di nullità prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, (ma anche dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 1), solo gli atti di scioglimento della comunione “ordinaria” o anche quelli di scioglimento della comunione “ereditaria” (“seconda questione di diritto”).>>
Circa la prima questione , secondo la SC va preso atto che << la L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, sia pure attraverso un diverso percorso semantico, ha la medesima estensione applicativa dell’art. 46 del D.P.R. n. 380 cit. (e della disposizione che lo ha preceduto). Nulla autorizza a ritenere che la comminatoria di nullità prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, abbia un ambito oggettivo diverso da quello della comminatoria prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 1; nulla autorizza a ritenere che gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi o loro parti siano esclusi, alle condizioni stabilite, dalla comminatoria di nullità, considerato che essi rientrano comunque nella classe degli atti contemplati nella disposizione di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2; nulla autorizza a ritenere che il legislatore abbia inteso prevedere una disciplina differenziata per gli atti di scioglimento di comunione aventi ad oggetto edifici, a seconda che la costruzione sia stata realizzata in data anteriore o successiva rispetto all’entrata in vigore della L. n. 47 del 1985.
Alla stregua di quanto sopra, deve concludersi che la L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, è applicabile anche agli atti di scioglimento della comunione. Restano fuori dal campo di applicazione della L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, così come – d’altra parte – dal campo di applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 1, (e prima della L. n. 47 del 1985, art. 17, comma 1), gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale (ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle richiamate disposizioni) e – come si vedrà nel prosieguo – gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 5, e L. n. 47 del 1985, art. 40, commi 5 e 6)>>
La seconda questione, come detto, attiene invece al se lo scioglimento della comunione ereditaria sia atto mortis causa o tra vivi. Precisamente riguarda il <<se nel novero degli atti tra vivi, per i quali la L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, (come sopra interpretato) commina la sanzione della nullità, possa includersi solo l’atto di scioglimento della comunione ordinaria, dovendo ritenersi l’atto di divisione della comunione ereditaria un negozio assimilabile agli atti mortis causa, ovvero debba includersi anche l’atto di scioglimento della comunione ereditaria, da qualificarsi invece come negozio inter vivos.>> § 3
Nel § 4 la Corte ricorda le caratteristiche generali della comunione ereditaria e i suoi rapporti con quella ordinaria (ex art. 1100 cc)
Il primo argomento, per cui sarebbe atto mortis causa, è quello per cui sarebbe ad essi assimilabile, non avendo natura automnoma. La Corte ha buon gioco nel respingerlo (§ 5.1).
Il secondo argomento è quello per cui la tesi della natura inter vivos crerebbe disparità di trattamento con la divisione del testatore ex art. 734 cc. Anche qui è facile motivarne il rigetto: la divisione del testtatore evita la divisione , per cui non c’è alcuna omogeneità di effetti tra i due atti (tant’è che è disposta dal testatore invece che dai comunisti) (§ 5.3)
Il terzo argomento è -apparentemente- il più difficile da superare ed è quello basato sulla norme che dispone la retrattività della divisione erditaria. Si tratta dell’art. 757 c.c. , secondo cui “Ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per l’acquisto all’incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari“.
La Corte, tuttavia, precisa che tale efficacia retroattiva opera <<solo sul piano dell’effetto distributivo proprio della divisione (il c.d. “apporzionamento”), ossia solo per quanto riguarda l’acquisto della titolarità dei beni assegnati; ma essa non cancella gli altri effetti della comunione e le situazioni attive e passive acquisite dal condividente o dai terzi durante lo stato di comunione: ad es., i frutti naturali della cosa comune già separati al momento della divisione restano acquisiti alla comunione e non competono all’assegnatario del bene che li aveva prodotti (cfr., Cass., Sez. 2, n. 2975 del 20/03/1991); i condividenti sono tenuti a reciproca garanzia per l’evizione (art. 759 c.c.); sopravvivono pure i diritti reali costituiti in favore di terzi durante la comunione (salva la garanzia ipotecaria costituta dal compartecipe che, ai sensi dell’art. 2825 c.c., si trasferisce sui beni a lui assegnati); restano opponibili i rapporti di locazione>> (§ 5.3).
La motivazione si basa sui seguenti argomenti.
In primo luogo già <<sul piano della teoria generale, … il fenomeno della retroattività di un atto giuridico si accompagna, per sua natura, all’efficacia costitutiva dell’atto stesso ed è incompatibile con l’efficacia meramente dichiarativa del medesimo.>> (§ 5.3.1).
In secondo luogo -e soprattutto, direi- lo scioglimento della comunione non accerta o dichiara affatto una situazione giuridica preesistente, ma <<immuta sostanzialmente la realtà giuridica. Con la divisione, infatti, ogni condividente perde la (com)proprietà di tutti i cespiti costituenti l’asse ereditario e concentra il proprio diritto su uno solo o su alcuni di essi (“aliquid datum, aliquid retentum”); sorgono, dunque, tante proprietà individuali laddove, prima, esisteva una comproprietà. E’ chiaro, dunque, che l’idea secondo cui la divisione non costituirebbe titolo di acquisto dei beni assegnati in proprietà esclusiva può essere condivisa solo a patto di restringerne il significato al piano puramente economico, essendo chiaro che il passaggio dalla contitolarità pro quota dei beni comuni alla titolarità esclusiva della porzione non si traduce in un incremento patrimoniale per il condividente. Tuttavia, sul piano della modificazione della sfera giuridica dei condividenti, è indubbio come nel fenomeno divisorio sia insito un effetto costitutivo, sostanzialmente traslativo, perchè con la divisione ogni condividente perde la (com)proprietà sul tutto (che prima aveva) e – correlativamente – acquista la proprietà individuale ed esclusiva sui beni a lui assegnati (che prima non aveva): le quote ideali spettanti a ciascun condividente su tutti i beni facenti parte della comunione sono convertite in titolarità esclusiva su taluni singoli beni. Deve, pertanto, riconoscersi che la divisione ha una natura specificativa, attributiva, che impone di collocarla tra gli atti ad efficacia tipicamente costitutiva e traslativa (efficacia, peraltro, della quale non si dubitava nè nel diritto romano nè in quello intermedio)>> (§ 5.3.2).
In conclusione dall’efficacia retroattiva disposta dall’art. 757 c.c. <<non può argomentarsi la natura meramente dichiarativa del contratto di divisione ereditaria e, tantomeno, la sua natura di atto mortis causa. La divisione non ha causa ricognitiva di effetti giuridici già verificatisi, ma – al contrario – ha causa attributiva e distributiva, in quanto ciascun condividente può divenire l’unico titolare di questo o di quel bene ricadente in comunione solo se vi sia stato un procedimento (contrattuale o giudiziale) che abbia determinato, con effetti costitutivi, lo scioglimento di quella comunione. Essa costituisce, pertanto, un atto assimilabile a quelli di natura traslativa, per i quali la L. n. 47 del 1985 e il D.P.R. n. 380 del 2001 comminano la sanzione della nullità ove abbiano ad oggetto edifici abusivi o parti di essi>> (§ 5.3.4).
L’insegnamento è condivisibilissimo: anche se per vero le tesi contrarie erano veramente poco fondate, confondendo efficacia retroattiva e natura dichiarativa.
La S.C. fa infine due importanti precisazioni:
1) questa disciplina si applica pure alla divisione giudiziale e non solo a quella contrattuale (§ 6.1);
2) è possibile disporre anche una divisione parziale, omettendo gli immobili abusuvi, e nessun coerede può opporvisi (§ 6.2).
Dalla natura costitutivo-traslativa della divisione potrebbero però seguire altre conseguenze, che dovranno essere studiate. Ad es. emerge la necessità di una nuova lettura dell’art. 2646 cc, relativo alla trascrizione della divisione: la quale non potrà più essere considerata una pubblicità notizia a solo fine di continuità delle trascrizioni, ma una ordinaria pubblicità dichiarativa ex art. 2644 c.c. (come ipotizza F.M. Bava in La divisione ereditaria quale atto inter vivos avente natura costitutiva, in nota alla sentenza, in I contratti, 2019/6, 623, che esamina altre conseguenze discendenti dalla riconosciuta natura traslativa). In senso contrario, proprio facendo valere la natura dichiarativa alla luce dell’art. 757 cc, intende invece l’art. 2646 come trascrizione a soli fini di continuità Ciacci Caimi, Della trascrizione degli atti relativi ai beni immobili (Artt. 2643-2645 bis, 2646-2651), Il Cod. Civ. Comm., dir. da Busnelli, 2018, 267-269).
Si è fatto riferimento allo scopo di apporzionamento (<<endodivisionale>>), proprio della divisione ereditaria, per dedurne alcune conseguenze: i) non c’è obbligo di allegare l’attestato di prestazione energetica; ii) il bene attribuito in proprietà esclusiva non entra nell’eventuale comunione legale esistente in capo al condividente (Romano C., Natura giuridica della doivisione ereditaria;: la posizione selle Sezioni Unite, Notariato, 2019/6, 674-675). A me pare che la divisione ereditaria vada trattata come la divisione che pone fine ad una comunione ordinaria (fino a che non ci sia norma in senso contrario).