Trib. Milano dep. 16.06.2023 n° 5025/2023, RG 38556/2020, rel. Marangoni:
<<5.1 La questione relativa alla rilevanza di un intento elusivo di norme fiscali sulla validità dei contratti civilistici connessi è stabilmente pervenuta ad un principio di tendenziale non interferenza.
La giurisprudenza formatasi su tale questione – come ricostruita da Cass. SU 23601/17 – aveva rilevato come, in assenza di disposizioni che sancissero testualmente la nullità del negozio giuridico elusivo di una norma tributaria, non fosse nemmeno configurabile una nullità virtuale del contratto per frode alla
legge (art. 1344 c.c.) o per violazione di una norma imperativa (art. 1418, comma 1, c.c.). Ciò in quanto la norma fiscale non avrebbe carattere imperativo, tenuto conto della distinzione tra norme imperative e norme inderogabili, nonché del peculiare carattere settoriale dell’interesse sotteso. Le norme tributarie,
essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico.
Tale orientamento – ha rilevato ancora Cass. SU 23601/17 – è stato poi recepito dallo stesso legislatore tributario nell’art. 10, comma 3, I. 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto dei diritti del contribuente), a mente del quale “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” mentre il successivo art. 10 bis della stessa I. n. 212 del 2000 (articolo aggiunto legge dall’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015, che ha abrogato e sostituito l’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600), stabilisce la mera inopponibilità all’amministrazione finanziaria dei fatti, degli atti e dei contratti che siano sprovvisti di “sostanza economica” e finalizzati, “pur nel
rispetto formale delle norme fiscali” a realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
In assenza di specifica disposizione di legge – nella fattispecie non sussistente – deve dunque confermarsi che le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni (v. Cass. SU 23601/17 cit., Cass. 4785/07, Cass. 17475/20)>>
Suul’art. 118/1 cpi:
<<7. Ritiene il Collegio che le valutazioni innanzi espresse quanto all’inesistenza di diritti sorti in capo a GIADA s.p.a. rispetto alla presunta utilizzazione autonoma dei marchi JACOB COHËN debbano essere estese anche ai segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622”, segni che sono stati oggetto di domande di registrazione comunitaria e nazionale da parte della stessa GIADA s.p.a.
Quanto al segno “Baffo”, deve rilevarsi che parte attrice ha depositato documenti dai quali si evince che l’utilizzazione di tale segno era precedente all’inizio della licenza con GIADA s.p.a. (v. docc. da 23 a 26 attr.), mentre per i segni costituiti dalle menzionate cifre risultano depositate fatture So.Ge.Tex s.r.l. – prima licenziataria dei marchi JACOB COHËN – risalenti agli anni 2003/04 che presentavano codici identificativi dei prodotti aventi come cifra iniziale il numero “6” (doc. 88 attr., documenti allegati alla dichiarazione Paolo Soncin).
Ritiene il Collegio che la funzione di marchi accessori e secondari rispetto ai marchi registrati JACOB COHËN che detti segni di fatto per concorde indicazione delle parti hanno rivestito nel corso del lungo rapporto di licenza intercorso tra le parti consenta di ritenere che anche su di essi sia individuabile un uso continuativo e rilevante riconducibile alla titolare dei marchi principali registrati. In effetti GIADA s.p.a. non ha motivato la sua decisione di procedere al deposito formale delle domande di registrazioni di tali marchi se non come conseguenza della sua tesi relativa alla presunta interruzione della catena delle cessioni dei marchi registrati cui sarebbe conseguita la decadenza per non uso degli stessi, situazione che avrebbe consentito ad essa di acquisire in autonomia tutti i diritti su di essi (e quindi anche sui marchi accessori e secondari).
La fondatezza di tale tesi è stata negata e dunque a tale proposito non si può che ritenere che l’uso dei segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622” abbiano seguito la stessa sorte dei marchi registrati, in quanto pacificamente utilizzati sui prodotti oggetto di licenza, realizzati
ed approvati dalla licenziataria e rispetto ai quali tutti i diritti devono ritenersi ad essa spettanti (v. contratto 20.6.2006, in doc. 18 attr.: art. 3.3, in cui il Concessionario si era impegnato a non registrare qualsiasi altro marchio del Concedente o con esso confondibile; contratto di licenza 1.8.2013, in doc. 1
attr.: art. 6.3 che impedisce alla licenziataria la commercializzazione di prodotti che non siano stati approvati dalla licenziante, art. 9.2 che impedisce alla licenziataria di apporre sui prodotti marchi d iversi da quelli licenziati) in quanto utilizzati con il suo consenso.
7.1 Deve dunque riconoscersi la fondatezza del richiamo al primo comma dell’art. 118 c.p.i. svolta da parte attrice per ciò che concerne le domande nazionali di registrazione del segno “Baffo”, rispetto alle quali va affermato che l’uso precedente e continuo di tale segno di fatto – realizzato mediante l’attività
della licenziataria – è riconducibile alla JACOB COHEN COMPANY s.p.a. e che ciò consente di ritenere l’insorgenza in favore della stessa del diritto di procedere alla sua registrazione, diritto che appare violato dai depositi del medesimo segno eseguiti dalla ex-licenziataria>>.