Valore probatorio della mail

Cass. sez. III, ord. 18/09/2024  n. 25.131, rel. Rubino:

<<La decisione di merito è coerente, peraltro, con le più recenti affermazioni di legittimità in ordine al valore da attribuire alle mail. Si è recentemente affermato che, in merito al valore da attribuire alle comunicazioni inviate mediante posta elettronica semplice, i principi desumibili dalla legge sono pochi e semplici, e possono così riassumersi: (a) il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma “semplice” è un documento informatico ai sensi dell’art. 2712 c.c.; (b) se non ne sono contestati la provenienza od il contenuto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate (così già Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11606 del 14/05/2018, Rv. 648375 – 01; Sez. 2, Ordinanza n. 30186 del 27.10.2021 (in motivazione, pag. 4); Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3540 del 6.2.2019; una conferma a contrario di tali principi si ricava anche da Sez. 2 – , Ordinanza n. 22012 del 24/07/2023, la quale ha negato che una e-mail priva di firma elettronica avanzata soddisfi il requisito della forma scritta, ma solo se tale forma sia richiesta ad substantiam negotii); (c) se ne sono contestati la provenienza od il contenuto, il giudice non può espungere quel documento dal novero delle prove utilizzabili, ma deve valutarlo in una con tutti gli altri elementi disponibili e tenendo conto delle sue caratteristiche intrinseche di sicurezza, integrità, immodificabilità (da Cass. n. 14046 del 2024)

La mail semplice è dunque un documento informatico scritto che entra nel processo e che deve essere valutato dal giudice.

Quanto alla ricezione delle comunicazioni a mezzo mail, si è più volte affermato che il titolare dell’indirizzo mail ne è responsabile, nel senso che non può limitarsi a negare di aver mai ricevuto la comunicazione, ma deve controllare che la ricezione della posta non sia bloccata e che i messaggi non siano finiti nella spam, rimanendo nella sua responsabilità la mancata conoscenza di un messaggio che gli sia stato regolarmente inviato e del quale non abbia preso conoscenza per il malfunzionamento della sua casella di posta elettronica o perché finito nella spam. [errore: il punto probtorio è proprio capire quando sia raggiunta la prova e a chi incomba -al mittente, direi-  che il messaggio gli statao consegnato].

Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha preso atto che esiste un documento, firmato dal ricorrente per ricezione, che contiene la firma non disconosciuta del ricorrente, con il quale questi riceve la comunicazione del dispositivo della decisione della CTR. Il ricorrente non è riuscito a provarne l’abusivo riempimento. Sulla base di questo, ha ritenuto accertato che la mail informativa fosse stata inviata al ricorrente [errore colossale: v. appunto precedente] , ed ha ritenuto assolto l’obbligo informativo>>.

Azione per l’adempimento e onere nella prova nell’appalto

Cass. sez. II, ord. 23/09/2024  n. 25.410, rel. Giannaccari:

<<Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento (Cass., Sez. Un., 30/10/2001 n.13533).

L’applicazione di tale principio al contratto di appalto – cui per giurisprudenza costante si estende la disciplina generale dell’inadempimento del contratto – comporta che l’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto ha l’onere di provare di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, cioè di avere eseguito l’opera conformemente al contratto ed alle regole dell’arte, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua pretesa (Cass., Sez. II, 13/02/2008 n.3472). Con l’effetto che la sua domanda non può essere accolta nel caso in cui l’altra parte contesti il suo adempimento, come avvenuto nel caso di specie, in cui il committente ha contestato che la prestazione non era stata integralmente eseguita e che alcune piante non erano attecchite.

A fronte di tale contestazione, la Corte d’Appello avrebbe dovuto accertare se la prestazione dell’appaltatore fosse stata integralmente e correttamente eseguita e, solo in caso positivo, avrebbe potuto condannare il committente al pagamento del prezzo.

La Corte d’Appello ha omesso di considerare che Bo.Ro. aveva eccepito l’inadempimento dell’appaltatore per inesattezza qualitativa e quantitativa della prestazione e, ribaltando l’onere della prova, ha erroneamente condannato il committente al pagamento del prezzo, senza accertare se la prestazione dell’appaltatore fosse stata adempiuta>>.

Interessante pure il prosieguo:

<<Non è pertinente, ai fini dell’obbligo di pagamento del corrispettivo da parte del committente, il richiamo all’art. 1181 c.c., secondo cui il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile; nel caso di specie, nessuna delle parti ha chiesto la risoluzione del contratto, sicché non è applicabile il principio statuito da Cass., Sez. II, 17/02/2010 n. 3786, in forza del quale, nel contratto d’appalto, il committente può rifiutare l’adempimento parziale oppure accettarlo e, anche se la parziale esecuzione del contratto sia tale da giustificarne la risoluzione, può trattenere la parte di manufatto realizzata e provvedere direttamente al suo completamento, essendo, poi, legittimato a chiedere in via giudiziale che il prezzo sia proporzionalmente diminuito e, in caso di colpa dell’appaltatore, anche il risarcimento del danno>>.

Infedeltà coniugale, intollerabilità della convivenza e onere della prova

Cass. sez. I, ord. 18/04/2024 n. 10.489, rel. Ioffrida:

<<Questa Corte ha quindi affermato (Cass. 25618/2007) che “In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale”.

Il principio è stato ribadito (Cass. 16859/2015) : “In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale”.

Sempre questa Corte in punto di riparto dell’onere probatorio ha affermato che “grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre, è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà”, cosicché “laddove la ragione dell’addebito sia costituita dall’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, questo comportamento, se provato, fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile, sicché, da un lato, la parte che lo ha allegato ha interamente assolto l’onere della prova per la parte su di lei gravante, e dall’altro la sentenza che su tale premessa fonda la pronuncia di addebito è sufficientemente motivata” (Cass. 2059/2012; Cass. 3923/2018).

In sostanza, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale deve essere accertata in modo rigoroso attraverso una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale e chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda di addebito (nella specie, dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza) deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà>>.

Riparto dell’onere della prova (e valutazione ex art. 116 cpc) nel rito lavoro in azione di danno del lavoratore verso il datore: favor estendibile a casi in cui ricorra la stessa ratio?

Cass. sez. lavoro, Ord. 15/04/2024, n. 10043 n. 10.043 rel. Riolfi, in un azione di danno del dipendente verso la Regione Calabria per epatite C contratta durante il servizio presso la ASL 2 di CAstrovillari:

Fatto processuale:

<<.3. La Corte territoriale, invero, dopo aver operato previamente la qualificazione del titolo di responsabilità invocato dal ricorrente come responsabilità ex art. 2087 c.c., ha correttamente richiamato il principio generale, reiteratamente affermato da questa Corte, per cui, non costituendo l’art. 2087 c.c. ipotesi di responsabilità oggettiva, grava comunque sul lavoratore, che tale titolo di responsabilità venga ad invocare, l’onere di allegare, sia gli indici della nocività dell’ambiente lavorativo cui è esposto – da individuarsi nei concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa -sia il nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione ed i danni subiti (e.g. Cass. Sez. L – Sentenza n. 28516 del 06/11/2019; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 26495 del 19/10/2018; Cass. Sez. L -Sentenza n. 10319 del 26/04/2017 sino alle più risalenti Cass. Sez. L, Sentenza n. 4840 del 07/03/2006Cass. Sez. L, Sentenza n. 4840 del 07/03/2006).>>

Ed allora la SC:

<<4.4. Tale drastica declinazione del principio generale, pur correttamente richiamato, non ha tuttavia tenuto conto dei principi enunciati da questa Corte con riferimento alle specificità che caratterizzano l’attività istruttoria nel rito del lavoro.

Questa Corte, infatti, ha reiteratamente chiarito – anche con riferimento al giudizio d’appello – che nel rito del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori del giudice – che può essere utilizzato a prescindere dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti – vede quali presupposti la ricorrenza di una semipiena probatio e l’individuazione di quegli elementi che sono stati ricondotti alla categoria della “pista probatoria”, e cioè di quelle informazioni che emergono dal complessivo materiale probatorio, anche documentale, e che costituiscono fattore che non solo vale a superare una rigida applicazione delle già richiamate preclusioni istruttorie e degli stessi limiti all’attività istruttoria, ma anche giustifica – ed anzi rende doveroso – l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, oltre ad una valorizzazione complessiva e non parziale del materiale probatorio, sebbene anche solo indiziario (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 26597 del 23/11/2020; Cass. Sez. L, Ordinanza n. 33393 del 17/12/2019; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 32265 del 10/12/2019; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 11845 del 15/05/2018; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 28134 del 05/11/2018; Cass. Sez. L, Sentenza n. 9034 del 06/07/2000).

Tale principio, del resto, costituisce gemmazione di un principio più generale, anch’esso oggetto di reiterata enunciazione e riferito proprio alla verifica dell’effettiva sussistenza di uno scenario di assoluta mancanza di prova, quale quello evocato dalla decisione impugnata.

A mente di tale principio, nel rito del lavoro, la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo -costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito – che non solo impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo, ma conduce a considerare del tutto residuale l’ipotesi di “assoluta mancanza di prove”.

Tale necessità si traduce in una maggiore pregnanza del dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito con una valutazione, non limitata all’esame isolato dei singoli elementi, ma operata in via globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica (Cass. Sez. L, Sentenza n. 18410 del 01/08/2013; Cass. Sez. L, Sentenza n. 6753 del 04/05/2012, per risalire a Cass. Sez. U, Sentenza n. 11353 del 17/06/2004).

Alla luce di tali principi, quindi, pur restando immutate le regole generali di distribuzione degli oneri probatori, la presenza di elementi idonei a costituire “piste probatorie” determina il potere-dovere del giudice di procedere – anche tramite i poteri ufficiosi che gli sono attribuiti dalla legge – sia agli opportuni approfondimenti sia ad una valutazione complessiva del quadro probatorio – sia quello iniziale sia quello risultante dagli approfondimenti medesimi – la quale può sfociare in un giudizio conclusivo di totale carenza probatoria solo qualora, all’esito di un vaglio complessivo dell’insieme degli elementi disponibili, risulti l’assoluta inconsistenza del contributo probatorio di questi ultimi.

4.5. Si deve, a questo punto, rilevare che nella decisione impugnata la Corte d’appello risulta aver radicalmente trascurato – omettendone persino la menzione in parte motiva – una circostanza di cui pure essa stessa aveva dato atto nella propria diffusa ricostruzione dei fatti di causa, e cioè la precedente attivazione della procedura per il riconoscimento al ricorrente della causa di servizio proprio in relazione all’incidente cui viene attribuita la fonte del contagio accidentale, procedura nell’ambito della quale era stato espresso giudizio favorevole sia dalla Commissione medica sia dal Comitato di verifica>>.

Sfasatura temporale tra atto di malagestio degli amministratori e omissiva negligenza dei sindaci, unità temporale dell’incarico affidato a questi ultimi e cenno all’onere della prova

Cass. sez. I, ord. 13/02/2024 n. 3.922, rel. Crolla, affronta un caso di malagestio degli anni 2013-2014 rispetto a compensi chiesti dal sindaco per gli anni 2018-2019 (incarico triennnale 2017-2019).

<<4.1 Il motivo è fondato. 4.2 I giudici circondariali hanno accertato che i rilievi relativi alla carente vigilanza dei sindaci si riferiscono agli esercizi 2013 e 2014; ciò nondimeno, secondo Tribunale, l’eccezione di inadempimento del collegio sindacale paralizzerebbe il diritto al compenso per l’intero triennio della durata del mandato atteso che, secondo quanto previsto dall’art 2402 c.c., il corrispettivo per l’opera prestata dal sindaco, seppur corrisposto annualmente, deve essere determinato all’atto di nomina per l’intero periodo di durata dell’ufficio.

4.3 Le conclusioni raggiunte dal Tribunale non sono in linea con l’orientamento di questa Corte che ha affermato il principio secondo il quale “in tema di società di capitali, l’adempimento dei doveri di controllo, gravanti sui sindaci per l’intera durata del loro ufficio, può essere valutato non solo in modo globale e unitario ma anche per periodi distinti e separati, come si desume dalla disciplina generale, contenuta nell’art. 1458, comma 1, c.c., riferita a tutti i contratti ad esecuzione continuata, pertanto, poiché l’art. 2402 c.c. prevede una retribuzione annuale in favore dei sindaci, è in base a questa unità di misura che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve essere confrontato con il diritto al compenso” (cfr. Cass. 6027/2021). Ciò in quanto il testo della norma dell’art. 2402 c.c. risulta univoco nell’indicare che quella spettante ai sindaci è, propriamente, una “retribuzione annuale”, secondo quanto è coerente, del resto, con la durata che connota, come scansione dell’attività di impresa, l'”esercizio sociale” (così, sulla base di questa constatazione, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il credito del sindaco goda del privilegio ex art. 2751-bis c.c. non già in relazione agli ultimi due mandati, ma unicamente per le due ultime annualità del più recente incarico: cfr. Cass., 4 dicembre 1972, n. 3496; Cass., 9 aprile 2019, n. 15828, che appunto discorrono di “distinti crediti annuali”). Ne segue, allora, che è con questa unità di misura (della singola annualità) che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve venire a confrontarsi in relazione al riconoscimento del diritto al compenso del sindaco.

4.4 Hanno, quindi, errato i giudici lariani nel non aver riconosciuto il carattere sinallagmatico delle prestazioni sull’unità temporale dell’annualità, ferme restando le considerazioni sopra svolte in ordine alla configurazione delle condotte inerti antidoverose dei sindaci anche per i periodi successivi agli atti di mala gestio degli amministratori sino al Fallimento, nell’ipotesi di permanenza dei loro effetti dannosi, che sarà accertata in sede di giudizio di rinvio per effetto dunque dell’accoglimento dei primi due motivi del Fallimento.>>

Non concordo. L?ary. 2402 regola solo la scadenza del pagAMENTO (rateale); ma l’incarico è unitariamente determinato in tre anni.

CEnno sull’onere della prova:

<<

5.2 In ogni caso la censura è inammissibile ex art. 360 bis nr 1 c.p.c. in quanto, per consolidata giurisprudenza, il curatore che solleva nel giudizio di verifica l’eccezione d’inadempimento, secondo i canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale, ha (solo) l’onere di allegare e provare l’esistenza del titolo negoziale, contestando, in relazione alle circostanze del singolo caso, la non corretta (e cioè negligente) esecuzione della prestazione o l’incompleto adempimento, restando, per contro , a carico del professionista (al di fuori di una obbligazione di risultato, pari al successo pieno della procedura) l’onere di dimostrare l’esattezza del suo adempimento per la rispondenza della sua condotta al modello professionale e deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è intervenuto con la propria opera ovvero l’imputazione a fattori esogeni, imprevisti e imprevedibili, dell’evoluzione negativa della procedura, culminata nella sua cessazione (anticipata o non approvata giudizialmente) e nel conseguente fallimento (Cass. 18705/2016, 25584/2018 con riferimento alle prestazioni professionali del sindaco; Cass. S.U. n. 42093 del 2021, in motiv. e 35489/2023).

4.2 In verità tale orientamento va specificato con riferimento alla ipotesi, prevista dall’art 24072 ° comma c.c., di responsabilità concorrente e solidale dei sindaci con quella degli amministratori, per omessa vigilanza sui comportamenti di questi.

4.3 In tale evenienza, secondo il recente insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 2343/2024), l’eccipiente deve fornire “la prova di quei fatti storici, attinenti alla gestione ovvero al concreto assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, sui quali si innesta la deviazione della condotta di vigilanza esigibile dal sindaco; quella condotta, cioè, che il sindaco, che poi agisce in sede concorsuale per l’adempimento del proprio credito stante il pregresso inadempimento del corrispettivo, avrebbe dovuto tenere – e non ha tenuto – in relazione al suo mandato. Solo, dunque, per essa appare sufficiente, nella ripartizione dell’onere della prova, che il creditore della prestazione di vigilanza (nella fattispecie, e per la società, il curatore fallimentare) possa anche limitarsi a eccepire, nei segnalati termini di specificità, l’inesatto adempimento, allegato come difetto di vigilanza rispetto a fatti specifici invece non solo descritti ma anche provati”  >>.

Determinazione del dare/avere da conto corrente e documentazione richiesta in base all’onere della prova: decalogo operativo dalla Cassazione per il caso di opposte domande

Interessante analisi in Cass. sez. 1 del 17 gennaio 2024 n. 1.763 rel. Campese , segnalata e linkata da Francsco Leo in post Linkedin (Cass. 1.763 che ora viene richiamata, anzi invocata, da Cass. n. 5387 del 29.02.2024, stessa sezione, stesso relatore, sub § 3.2).

Premessa:

<<2.9.2. Innanzitutto, è doveroso muovere dal rilievo che, nei rapporti bancari di conto corrente, una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi ultralegali o anatocistici a carico del correntista (oppure la non debenza di commissioni di massimo scoperto o, ancora, il non corretto calcolo dei giorni valuta) e riscontrata la mancanza di una parte degli estratti conto, l’accertamento del dare ed avere può attuarsi con l’impiego anche di ulteriori mezzi di prova idonei a fornire indicazioni certe e complete che diano giustificazione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto stessi (cfr. Cass. n. 22290 del 2023; Cass. n. 10293 del 2023). Questi ultimi, infatti, non costituiscono l’unico mezzo di prova attraverso cui ricostruire le movimentazioni del rapporto. Essi – come rimarcato dalla già menzionata Cass. n. 37800 del 2022 (e sostanzialmente ribadito dalle più recenti Cass. n. 10293 del 2023 e Cass. n. 22290 del 2023) – consentono di avere un appropriato riscontro dell’identità e della consistenza delle singole operazioni poste in atto; tuttavia, in assenza di un indice normativo che autorizzi una diversa conclusione, non può escludersi che l’andamento del conto possa accertarsi avvalendosi di altri strumenti rappresentativi delle intercorse movimentazioni. In tal senso, allora, a fronte della mancata acquisizione di una parte dei citati estratti, il giudice del merito: I) ben può valorizzare altra e diversa documentazione, quale, esemplificativamente, e senza alcuna pretesa di esaustività, le contabili bancarie riferite alle singole operazioni, oppure, giusta gli artt. 2709 e 2710 cod. civ., le risultanze delle scritture contabili (ma non l’estratto notarile delle stesse, da cui risulti il mero saldo del conto: Cass. 10 maggio 2007, n. 10692 e Cass. 25 novembre 2010, n. 23974), o, ancora, gli estratti conto scalari (cfr. Cass. n. 35921 del 2023; Cass. n. 10293 del 2023; Cass. n. 23476 del 2020; Cass. n. 13186 del 2020), ove il c.t.u. eventualmente nominato per la rideterminazione del saldo del conto ne disponga nel corso delle operazioni peritali, spettando, poi, al giudice predetto la concreta valutazione di idoneità degli estratti da ultimo a dar conto del dettaglio delle movimentazioni debitorie e creditorie (come già opinato proprio dalla citata Cass. n. 13186 del 2020, non massimata, in presenza di una valutazione di incompletezza degli estratti da parte del giudice del merito), oppure, come sancito da una recentissima pronuncia di questa Corte tuttora in corso di pubblicazione (resa nel giudizio n.r.g. 14776 del 2019), anche la stampa dei movimenti contabili risultanti a video dal data base della banca, ottenuta dal correntista avvalendosi del servizio di home banking, se non contestata in modo chiaro, circostanziato ed esplicito dalla banca quanto alla sua non conformità a quanto evincibile dal proprio archivio (cartaceo o digitale); II) parimenti, può attribuire rilevanza alla condotta processuale delle parti e ad ogni altro elemento idoneo a costituire argomento di prova, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ.

2.9.3. Successivamente, per far fronte alla necessità di elaborazione di tali dati così acquisiti, quello stesso giudice può certamente avvalersi di un consulente d’ufficio, essendo sicuramente consentito svolgere un accertamento tecnico contabile al fine di rideterminare il saldo del conto in base a quanto comunque emergente dai documenti prodotti in giudizio (cfr. Cass. n. 14074 del 2018; Cass. n. 5091 del 2016. Nel medesimo senso, si vedano pure Cass. n. 31187 del 2018; Cass. n. 11543 del 2019)>>.

Ma son cose note.    Ecco ora la parte più interessante, per il caso in cui la documentazione in atti non permetta in alcun modo la ricostruzione dei movimenti sul conto  per i periodi azionati:

<<2.9.5. In quest’ottica, dunque, potrà certamente trovare applicazione anche il criterio dell’azzeramento del saldo o del cd. saldo zero, il quale, pertanto, altro non rappresenta che uno dei possibili strumenti attraverso il quale può esplicitarsi il meccanismo della ripartizione dell’onere probatorio tra le parti sancito dall’art. 2697 cod. civ.

2.9.6. Ne consegue che se la banca agisca in giudizio per il pagamento dell’importo risultante a saldo passivo ed il correntista chieda, a sua volta, la rideterminazione del saldo, concludendo o per la condanna dell’istituto di credito a pagare in proprio favore o per l’accoglimento della domanda di quest’ultimo in misura inferiore rispetto a quella originariamente formulata, l’eventuale carenza di alcuni estratti conto o, comunque di altra documentazione che consenta l’integrale ricostruzione dell’andamento del rapporto, comporta che: I) per quanto riguarda la banca, il calcolo del dovuto potrà farsi:   I-a) nell’ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all’inizio del rapporto (ricordandosi, in proposito, che la banca non può sottrarsi all’assolvimento di un tale onere invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perché non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito. Cfr. Cass. n. 13258 del 2017; Cass. n. 7972 del 2016; Cass. n. 19696 del 2014; Cass. n. 1842 del 2011; Cass. n. 23974 del 2010; Cass. n. 10692 del 2007), azzerando il saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest’ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e procedendo, poi, alla rideterminazione del saldo finale utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura del conto (o alla data della domanda);   i-b) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, azzerando i soli saldi intermedi: intendendosi, con tale espressione, che non si dovrà tenere conto di quanto eventualmente accumulatosi nel periodo non coperto da documentazione, sicché si dovrà ripartire, nella prosecuzione del ricalcolo, dalla somma che risultava a chiusura dell’ultimo estratto conto disponibile (la banca, cioè, perde solo quello che si sarebbe accumulato nel periodo non coperto dagli estratti conto mancanti, sicché il dato finale risulterà abbattuto di quella somma); II) per quanto riguarda, invece, il correntista che lamenti l’illegittimo addebito di importi non dovuti (per anatocismo, usura, pagamento di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto, commissioni di massimo scoperto etc.) e ne chieda la restituzione, egli si trova, in realtà, in posizione praticamente analoga a quella della banca, atteso che il calcolo del dovuto potrà farsi tenendo conto che:    II-a) nell’ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all’inizio del rapporto, egli o dimostra l’eventuale vantata esistenza di un saldo positivo in suo favore, o di un minore saldo negativo a suo carico (ma, in tal caso, la corrispondente documentazione vale per entrambe le parti, per il congegno di acquisizione processuale), o beneficia comunque dell’azzeramento del saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest’ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e della successiva rideterminazione del saldo finale avvenuta utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura (o alla data della domanda);    II-b) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, anche in tal caso, egli, se sostiene che in quei periodi si è accumulata una somma a suo credito o un minore importo a suo debito per effetto, ad esempio di anatocismo e/o usura e/o pagamento di interessi ultralegali non pattuiti e/o commissioni di massimo scoperto non concordate, lo deve provare, producendo la corrispondente documentazione che, in tal caso, però, nuovamente sarà utilizzabile anche per la controparte, sempre per il congegno di acquisizione processuale. Altrimenti, beneficerà del meccanismo di azzeramento del/i saldo/i intermedio/i nel significato in precedenza chiarito, con l’evidente risultato che la banca, per quel/quei periodo/i, non ottiene niente ed il correntista, per lo stesso o gli stessi periodi, nulla recupera. Questi, cioè, è come se non ci fossero, posto che nessuno ha provato che cosa sia successo. Con la conseguenza che l’estratto conto immediatamente successivo, e tutti i successivi ancora, devono essere corretti ricollegando l’ultimo saldo disponibile al primo saldo in cui ricominciano ad essere presenti gli estratti conto.

2.9.7. In questo modo, dunque, il problema del rischio di due saldi difformi viene meno e, in buona sostanza, il meccanismo dell’azzeramento (anche di quello, prima definito intermedio, per eventuali intervalli temporali in cui mancano gli estratti conto) funziona allo stesso modo sia per la banca che per il correntista>>.

La prima parte della sentenza è pure interessante per il c.d. litigator. Afferma che la condotta silente(omissiva del CT di parte nel subprodedimnti ex art. 198 cpc attuaz. di fronte all’ingresso di documenti mai propdottio prima non può costituire consenso tacito. Il quale ultimo deve provenire proprio e solo dalla aperte: v. infatti il § 1.7.6 per cui “In tema di consulenza tecnica di ufficio ex art. 198 cod. proc. civ., l’acquisizione, da parte del consulente di ufficio, di documenti non precedentemente prodotti dalle parti, possibile anche se volta a provare fatti principali e non meramente accessori, necessita del consenso espresso, tacito o per facta concludentia, delle parti stesse, insufficiente rivelandosi quello eventualmente desumibile dalla condotta tenuta, nel corso delle operazioni peritali, dai loro consulenti, essendo questi ultimi privi del potere di impegnare le prime su questioni diverse da quelle inerenti alle indagini tecniche svolte dal consulente di ufficio”.

Onere della prova del danno da emotrasfusione

Sulla sempre poco lineare disciplina in oggetto si v. Cass. sez. III n. 26.091 del 7 settembre 2023, rel. Ambrosi:

Contesto fattual-processuale:

<<Tanto richiamato, la decisione di appello, nel riformare integralmente la decisione di prime cure, ha imposto alla paziente un onere probatorio sul nesso causale, nel caso di specie, che si pone al di fuori dei confini tracciati dai principi sopra richiamati, anche alla luce delle precisazioni in tema di prova del nesso eziologico poc’anzi ricordate, soprattutto, a fronte di una serie di circostanze emerse dall’istruttoria compiuta, quali, nella specie:

– la mancanza di documentazione sanitaria, (della cui produzione era onerata la A.S.P.) in ordine al peculiare procedimento di conservazione del sangue c.d. a “circuito chiuso”, soltanto dedotto dall’Azienda ma non prodotto in atti, – circostanza che, in prime cure, difatti, non era stata presa in considerazione dal C.T.U. -, e sulla quale, viceversa, la CTU rinnovata in appello aveva espresso considerazioni di tipo generale, ipotizzando, altrettanto astrattamente, e senza alcun riferimento al caso concreto, “l’impossibilità” del contagio soltanto nella ipotesi in cui tale procedura fosse correlata a condizioni astratte di normalità; – il protrarsi di tale omissione, benché il Giudice di prime cure avesse (correttamente) ordinato all’Ente, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi, di produrre in giudizio la predetta documentazione;

– la carenza di prova (gravante sulla struttura) del rispetto, nel caso concreto, di tutte le procedure indicate dalla CTU (sul punto, in tema di infezioni nosocomiali, cfr. Sez. 3, 03/03/2023 n. 6386, precedente con cui, da ultimo, è stata affermata la necessità che la prova del rispetto di tutte le procedure necessarie a prevenire tali infezioni sia offerta non in astratto, attraverso la produzione dei protocolli da seguire, ma in concreto e con riferimento al singolo intervento sanitario In particolare, si legge in motivazione che, “in tema di infezioni nosocomiali, la responsabilità della struttura sanitaria non ha natura oggettiva, sicché, a fronte della prova presuntiva, gravante sul paziente, della contrazione dell’infezione in ambito ospedaliero, la struttura può fornire la prova liberatoria di aver adottato, nel caso di specie, tutte le misure utili alla prevenzione delle stesse (sempre in motivazione, sono esemplificativamente elencate una serie di misure e procedure idonee a fornire detta prova liberatoria).

– il fatto che in occasione del ricovero, la paziente era, sì affetta da una generica sofferenza epatica, ma non anche (ed è certo) da epatite, come accertato anche dallo stesso CTU in appello, senza che, sul punto, la prova positiva sulla esistenza della infezione epatica al momento del ricovero fosse stata fornita dalla struttura sanitaria onde contrastare la presunzione semplice di contrazione dell’infezione all’esito dell’avvenuta trasfusione (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata, in motivazione)>>.

Errore della corte:

<<5.3. Nello specifico, la Corte d’appello ha violato i criteri di riparto dell’onere probatorio dettati dai precedenti richiamati allorquando ha, erroneamente, onerato la danneggiata, odierna ricorrente, di dimostrare l’assenza di una malattia epatica al momento del ricovero, senza poi valutare nel complesso gli elementi specifici addotti dalla stessa paziente ai fini di ritenere, presuntivamente, provato il nesso causale tra la condotta della danneggiante e l’evento di cui domandava il risarcimento. Risulta, difatti accertato (e riportato nell’illustrazione dei motivi di ricorso, in ossequio al principio di autosufficienza) che la paziente aveva dedotto:

– di non avere fattori di rischio specifici che potessero aver scatenato l’epatite;

– che la patologia era stata accertata ad un anno di distanza dalla trasfusione;

– che era restata del tutto ignota la causa alternativa.

Sul punto, la Corte di merito ha invero concluso in modo insanabilmente perplesso, asserendo che “non era possibile affermare la pregressa esistenza dell’infezione, ma neppure era possibile escluderla (…)” (pag. 9 della sentenza impugnata, in motivazione), in tal modo violando i principi posti a presidio dell’accertamento del nesso causale, alla luce del criterio “del più probabile che non”, ponendo a confronto le due ipotesi, positiva e negativa, in ordine alla sua sussistenza, senza spiegare in alcun modo perché una ipotetica causa ignota dovesse prevalere, nel giudizio probabilistico, sulla contraria ipotesi positiva, benché assistita da solidi argomenti presuntivi.

inoltre, la Corte di merito, sebbene abbia dato atto delle omissioni e lacune, che ha definito (con un irrilevante giudizio di tipo etico ai fini del decidere) “certamente non commendevoli” dell’Azienda sanitaria nella redazione e conservazione della documentazione prevista dalla normativa di settore, tuttavia ha inteso considerare detta carenza solo in relazione all’assolvimento dell’onere del debitore di fornire la prova liberatoria, tornando a sottolineare che la creditrice non aveva fornito la prova del nesso causale, quale presupposto imprescindibile per l’insorgenza dell’onere del debitore di provare l’esatto adempimento o l’impossibilità dello stesso (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata, in motivazione).

Osserva in conclusione il Collegio che le medesime argomentazioni della sentenza impugnata, addossando arbitrariamente in capo alla danneggiata, per un verso, l’onere di dimostrare che al momento della trasfusione non fosse affetta dall’infezione di cui ha preteso il risarcimento (cfr. Cass. Sez. 3 24/09/2015 n. 18895), e dall’altro, disinteressandosi di accertare se la condotta della A.S.P. nelle procedure di acquisizione e perfusione del plasma fosse stata o meno, nel caso concreto, conforme alla normativa di settore, pur avendone stigmatizzato la condotta sia nella tenuta e conservazione della documentazione sia nella accertata carenza di ogni allegazione al riguardo, contravvengono, come poc’anzi evidenziato, ai criteri funzionali di accertamento probatorio del nesso causale (funditus, cfr. Cass. Sez. 6 – 3, 22/04/2021 n. 10592).>>.

Principi di diritto (importanti assai a livello pratico):

“In tema di danno da infezione trasfusionale, è onere della struttura sanitaria dimostrare che, al momento della trasfusione, il paziente fosse già affetto dall’infezione di cui domanda il risarcimento;

“In tema di danno da infezione trasfusionale, è onere della struttura sanitaria allegare e dimostrare di avere rispettato, in concreto, le norme giuridiche, le leges artis e i protocolli che presiedono alle attività di acquisizione e perfusione del plasma”.

Interessante decisione in  CASs. 9 maggio 2023 n. 12.309 , 3 sez.,  rel Rossetti, in tema di azione di regresso nel rapporto di assicurazione della r.c. da circolazione  nautica , proposta dalal Compagnia Assicurativa :

<<Il principio invocato dalla ricorrente (p. 21 del ricorso) vale per la domanda proposta dall’assicurato nei confronti dell’assicuratore, nel qual caso è effettivamente onere del primo dimostrare l’avverarsi di un sinistro corrispondente a quello previsto dalla descrizione del rischio contenuta nella polizza).
Quel principio non vale invece per la domanda di regresso formulata dall’assicuratore nei confronti dell’assicurato. In questo caso infatti l’assicuratore assume la veste di attore, ed il conseguente onere di dimostrare la sussistenza delle circostanze legittimanti il regresso.>>

Non è menzionata la disposizione di legge regolante la rivalsa (v. per la rc auto l’abrodato art. 18 c.2 della L. 990 del 1969)

Esecuzione del contratto sociale secondo correttezza e buona fede

Trib. Roma n. 1370/2023 del 27.01.2023,  RG 6118/2018, rel. goggi (segnalata da giurisprudenzadelleimprese.it):

<<Se è vero, infatti, secondo quanto previsto dall’art. 1375 c.c., che il contratto sociale deve essere eseguito in buona fede e che, dunque, tutte le determinazioni e decisioni dei soci, assunte formalmente o informalmente durante lo svolgimento del rapporto associativo, debbono essere considerate come veri e propri atti di esecuzione e devono conseguentemente essere valutate nell’ottica della tendenziale migliore attuazione del contratto sociale, dovendosi, dunque, ai fini che qui rilevano, considerare antigiuridico anche un atto che in concreto si presenti espressione dell’inosservanza dell’obbligo di fedeltà allo scopo sociale e/o del dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale, occorre tuttavia che in concreto venga fornita la prova del pregiudizio patrimoniale effettivamente subito e della correlazione eziologica tra la condotta inadempiente del socio ed il danno al patrimonio sociale che viene ritenuto imputabile a tale condotta>>

Chiaro, conciso ed esatto. Il rapporto sociale è contrattuale e ad esso si applica la disciplina del contratto.

Poi sull’onere della prova:

<<Invero, dall’art. 2697 c.c. – che richiede all’attore la prova del diritto fatto valere ed al convenuto la prova della modificazione o dell’estinzione dello stesso – si desume il principio della presunzione di persistenza del diritto: in forza di tale principio, pacificamente applicabile all’ipotesi della domanda di adempimento, ove il creditore dia la prova della fonte negoziale o legale della propria pretesa, la persistenza del credito si presume ed è, dunque, sul debitore che grava l’onere di
provare di aver provveduto alla relativa estinzione ovvero di dimostrare gli altri atti o fatti allegati come eventi modificativi o estintivi del credito di parte avversa (in tal senso, Cass. Sezioni Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533; conf., ex plurimis, Cass., 21 maggio 2019, n. 13685; Cass., 13 giugno 2006, n. 13674; Cass., 12 aprile 2006, n. 8615)>>.

La prova del credito (addebiti ingiustificati) verso la banca non richiede necessariamente l’estratto di conto corrente, potendo bastare anche una c.t.u. basata sul’estratto c.d. scalare

Cass. sez. 1 del 18.04.2023 n. 10.293, rel. Nazzicone:

<<Esso invero intende riproporre un giudizio sul fatto, dal momento che la sentenza impugnata ha ritenuto di aderire alle risultanze dei calcoli operati dal c.t.u.: il quale si è sì fondato su conti c.d. scalari, ma ha rielaborato per intero il dovuto, espungendo le poste indebite risultanti.

Tale modus procedendi, da un lato, non incorre nella violazione delle norme invocate dalla ricorrente, e, dall’altro lato, appartiene all’ambito del giudizio sul fatto ed all’apprezzamento delle risultanze processuali, interamente affidato al giudice del merito.

Come è stato già rilevato (Cass. 27 ottobre 2020, n. 23476, non massimata), non è necessariamente inaffidabile il ricorso allo strumento degli estratti scalari (in cui, come ivi si osserva, vengono registrati con la medesima valuta i movimenti per somma algebrica); ed è una valutazione del giudice del merito, nel caso di specie positivamente svolta condividendo le risultanze del c.t.u., l’idoneità dei predetti estratti scalari a dar conto del dettaglio delle movimentazioni debitorie e creditorie (principio, del pari, già espresso da Cass. 30 giugno 2020, n. 13186, non massimata, in presenza di una valutazione di incompletezza degli estratti da parte del giudice del merito).

Va considerato, infatti, che le movimentazioni possono ricavarsi anche da tali documenti, i c.d. riassunti scalari, attraverso la ricostruzione operata dal consulente tecnico d’ufficio, secondo l’insindacabile accertamento in fatto del giudice di merito, ciò bastando ai fini probatori (Cass. 25 maggio 2022, n. 16837, non massimata sul punto).

Del resto, nei rapporti di conto corrente bancario, il correntista che agisca in giudizio per la ripetizione di quanto indebitamente trattenuto dalla banca, non è tenuto a documentare le singole rimesse suscettibili di restituzione soltanto mediante la produzione di tutti gli estratti conto periodici, ben potendo la prova dei movimenti desumersi aliunde, vale a dire attraverso le risultanze di altri mezzi di prova, che forniscano indicazioni certe e complete, anche con l’ausilio di una consulenza d’ufficio, da valutarsi con un accertamento in fatto insindacabile innanzi al giudice di legittimità (Cass. 19 luglio 2021, n. 20621; nonché Cass. 29 marzo 2022, n. 10140; Cass. 19 gennaio 2022, n. 1538).

Ed invero, secondo l’indirizzo ormai consolidato, nei rapporti bancari di conto corrente, nel caso di domanda proposta dal correntista, come nella specie, l’accertamento del dare-avere non deve necessariamente essere effettuato mediante la documentazione delle singole rimesse suscettibili di restituzione, operata esclusivamente mediante la produzione di tutti gli estratti conto periodici, ben potendo tale accertamento essere effettuato anche con l’ausilio di una consulenza d’ufficio, da valutarsi con un accertamento in fatto, insindacabile innanzi al giudice di legittimità.

L’enunciato principio di diritto afferma quindi come, a fronte di una produzione non integrale degli estratti conto, è sempre possibile, per il giudice del merito, ricostruire i saldi attraverso l’impiego di mezzi di prova ulteriori, purché questi siano idonei a fornire indicazioni certe e complete che diano giustificazione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto rapporto (Cass. n. 11543-2019; Cass. n. 9526-2019). La prova dei movimenti del conto può, pertanto, desumersi aliunde (Cass. n. 29190-2020), avvalendosi eventualmente dell’opera di un consulente d’ufficio che ridetermini il saldo del conto in base a quanto emergente dai documenti prodotti in giudizio, che devono fornire indicazioni certe e complete nei termini sopra illustrati (Cass. n. 20621-2021).

Ne deriva che la valutazione del materiale probatorio presente è attività riservata al giudizio del merito, senza che possa intervenire un sindacato e controllo da parte di questa Corte.

La censura in esame – a fronte di un giudizio di fatto operato dal giudice di merito, sulla base degli estratti scalari e della c.t.u. tende ad un’inammissibile rivisitazione del merito; e la corte territoriale ha rilevato come la banca non avesse contestato il conferimento del quesito al c.t.u., sulla base della documentazione in atti, ossia degli estratti scalari, né tale contestazione era stata mossa nella richiesta di integrazione della consulenza (pp. 8 e 9), statuizione neppure specificamente impugnata>>.

Ci pare tutto giusto (mancando disposizione contraria , la prova certo può darsi anche diversamente  dal e.c. cronologico, se persuasiva secondo le leggi della scienza contabile).   Solo che tale persuasività (idoneità allo scopo) è giudizio di diritto (art. 116 cpc), non di fatto.