Cass. sez. III, ord. 16/02/2024 n. 4.288, rel. Rossetti:
<<5.2. Pertanto è fondata la censura di falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. Di tale norma mancava infatti il presupposto (il danno arrecato dalla cosa), perché i danni oggetto del contendere erano quelli causati dall’imperita ricostruzione, non dal crollo.
Né poteva venire in rilievo la giurisprudenza richiamata dal Tribunale in materia di appalto (Cass. 23442/18), dal momento che il Comune non era il committente delle opere, né avrebbe potuto impedirne l’esecuzione.
La responsabilità del custode, infatti, si fonda non su un titolo giuridico (la proprietà, un diritto reale, ecc.), ma si fonda su un rapporto di fatto: ovvero la possibilità per il custode di esercitare un “potere di fatto” sulla cosa stessa. Da ciò derivano due corollari.
Il primo è che, mancando la signoria sulla cosa, viene meno la qualità di custode e, con essa, la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c.
Il secondo corollario è che il custode, in quanto titolare del potere di fatto sulla cosa, risponde dei danni provocati da questa, ma non può essere chiamato a rispondere dei danni causati non già dalla cosa, ma dalle modalità con cui l’appaltatore, chiamato ad eseguire lavori di restauro o manutenzione, ha eseguito questi ultimi.
È noto, al riguardo, che la giurisprudenza di questa Corte è consolidata (tra le ultime, ove ulteriori riferimenti, Cass., ord. 16/11/2023, n. 31949) nella affermazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione custode per le i danni causati dalle condizioni in cui versa la res in custodia anche quando questa sia modificata ed in quanto e come sia stata modificata, tranne il solo caso in cui la modifica sia avvenuta con modalità tali (immediatamente prima, ad esempio) da escludere oggettivamente la possibilità una qualsiasi pronta reazione; solo, davvero occorre stabilire se il danno è causato dai lavori alla res in custodia in costanza dei medesimi (ipotesi nella quale la simultaneità della condotta dell’esecutore dei lavori elide il nesso causale con la cosa, questa regredendo a mera occasione del sinistro), oppure se dipende dalla res in custodia come risultante all’esito dei lavori ed una volta questi cessati da tempo idoneo a consentire il ripristino di una oggettiva possibilità di intervento o adeguamento da parte del custode (nel qual caso torna pur sempre la cosa custodita, sia pure modificata o manomessa, ad essere ciò che cagiona il danno, regredendo i lavori e le modifiche a causa remota).
Così, nel caso di specie, l’invasione del fondo altrui con materiali di risulta, o l’imposizione di fatto d’una servitù di scolo delle acque reflue, non sono danni causati dalla “cosa”; sono danni causati dalle modalità di esecuzione dei lavori di ripristino della cosa.
Il ricorso incidentale va dunque accolto su questo punto, in applicazione del seguente principio di diritto:
“non è un danno arrecato “dalla” cosa, e come tale non legittima l’applicazione delle previsioni di cui all’art. 2051 c.c., il danno arrecato dall’appaltatore a terzi, e derivante immediatamente ed esclusivamente dalle modalità con cui ha scelto di eseguire i lavori di restauro della cosa oggetto dell’appalto” >>.