Non banali precisazioni su come condurre il giudizio controfattuale circa un intervento chirurgico troppo rischioso

Cass. Sez. III, Ord. 27/09/2024, n. 25.825, rel. Cricenti:

Sull’errore del secondo giudice:

<<In particolare, è fondato il terzo motivo, che denuncia un errore nel ragionamento controfattuale di accertamento del nesso di causalità, il quale errore è altresì dipeso dal difetto di valutazione denunciato negli altri due motivi.

In sostanza, la Corte di merito ha escluso la rilevanza causale della scelta di procedere all’intervento chirurgico e lo ha fatto con un ragionamento controfattuale del tutto errato, in quanto ha ritenuto che, ove fosse stato evitato l’intervento chirurgico, e ove si fosse optato per un intervento non invasivo o conservativo, quest’ultimo non avrebbe comunque sortito i suoi effetti così come era già accaduto in passato.

Intanto, questo ragionamento controfattuale è chiaramente viziato, come denunciato con il secondo motivo, da omesso esame di fatti rilevanti e decisivi, vale a dire della circostanza che, non solo e non tanto il CTU aveva ritenuto non necessario l’intervento chirurgico e preferibile un intervento di tipo conservativo, ma altresì della circostanza che un medico precedentemente intervenuto, ossia l’ortopedico D.D., aveva anch’egli sconsigliato l’intervento chirurgico e ritenuto invece più opportuno un intervento non invasivo.

Inoltre, il ragionamento effettuato dai giudici d’appello, secondo cui l’intervento chirurgico era maggiormente indicato in quanto quello conservativo non aveva prodotto in passato gli effetti sperati, è anch’esso viziato da omesso esame di un fatto rilevante, omissione da cui deriva contraddittorietà di giudizio, in quanto non si è tenuto conto del fatto che anche l’intervento chirurgico, che pure in precedenza era stato effettuato, non aveva prodotto, al pari di quello conservativo, gli effetti sperati.

Ma soprattutto, l’errore di ragionamento controfattuale sta nel fatto che l’efficacia causale dell’antecedente, ossia la scelta del tipo di intervento da effettuare, se chirurgico o meno, non andava valutata rispetto all’evento guarigione, ma rispetto all’evento concretamente verificatosi di danno permanente subìto dal paziente>>.

Per poi precisare:

<< In altri termini, il giudizio controfattuale andava effettuato chiedendosi se l’intervento conservativo, in luogo di quello chirurgico, avrebbe evitato o meno i danni permanenti al paziente, piuttosto che chiedersi se l’intervento conservativo avrebbe sortito effetti benefici per l’interessato guarendolo dalla patologia.

Nell’accertamento del nesso causale, infatti, la condotta alternativa lecita va messa in relazione all’evento concretamente verificatosi, e di cui si duole il danneggiato, e non già rispetto ad un evento diverso: se il danno di cui ci si lamenta è costituito dalla paralisi permanente, l’indagine causale va effettuata ponendo in relazione questo danno con la condotta alternativa lecita, ossia chiedendosi se tale danno era evitabile sostituendo la condotta posta in essere con una condotta alternativa. Invece, i giudici di appello, come si è detto prima, hanno effettuato l’indagine controfattuale considerando quale evento non già il danno subìto, ma l’inefficacia terapeutica del trattamento, e dunque un evento diverso, di cui il ricorrente non si duole. Non v’è dubbio che non guarire dalla lombosciatalgia è evento diverso dal subire la paralisi: ed occorreva chiedersi se, evitare l’intervento, avrebbe evitato la paralisi. L’evento che, per il ricorrente, ha costituito danno è, per l’appunto, la paralisi, non la mancata guarigione dalla lombosciatalgia, e dunque la questione causale è conseguente: stabilire se la condotta alternativa lecita avrebbe evitato quell’evento, non altro (la mancata guarigione dalla lombosciatalgia).

In altri termini, il ragionamento controfattuale, come svolto dai giudici di appello, può esprimersi nel modo seguente: “il trattamento conservativo non era necessariamente da preferire in quanto già in passato si era dimostrato inefficace”, quando invece l’assunto del ricorrente era: “il trattamento conservativo era da preferire in quanto avrebbe evitato i danni permanenti, poco importando la sua efficacia curativa”.

Il giudizio controfattuale consiste nella verifica della fondatezza di questa seconda proposizione linguistica, non della prima.

Come è evidente, l’efficacia causale della condotta alternativa lecita, ossia del trattamento conservativo, che era richiesto di accertare, non era quella di comportare la guarigione ma quella ben diversa di evitare il danno permanente.

Detto in termini semplici: il consiglio dato dagli altri medici di non fare l’intervento chirurgico, bensì trattamenti meno invasivi, non necessariamente era giustificato dalla maggiore efficienza di questi ultimi, ma ben poteva essere giustificato dalla minore rischiosità di essi, che è cosa ben diversa anche sul piano della individuazione dell’evento rispetto a cui effettuare il giudizio controfattuale.

E dunque la corte di merito avrebbe dovuto valutare se la condotta alternativa lecita (trattamento meno invasivo) era da pretendersi a prescindere dalla sua efficacia sulla patologia in corso, ma per via del fatto che garantiva, a differenza di quella di fatto tenuta, di evitare il rischio: se cioè vi sia stata colpa nella scelta dell’intervento chirurgico alla luce di tale previsione.

Né può dirsi che si tratta di un giudizio di fatto, qui non censurabile, in quanto è in gioco il criterio con cui si accerta il fatto, ossia il criterio con cui si accerta se l’evento sia riconducibile ad un antecedente colposo>>.

 

Efficacia probatoria delle linee guida e riparto interno della responsabilità sanitaria tra casa di cura e medico

Cass. sez. III ord. 11/12/2023 n. 34.516, rel. Porreca:

1) <<quanto alla mancata adozione della tecnica a quel tempo non ancora recepita dalle linee guida, questa sì opzione in tesi imperita, deve ricordarsi che questa Corte ha ripetutamente escluso sia una rilevanza normativa delle linee in parola, sebbene siano un parametro di accertamento della colpa medica (Cass., 29/04/2022, n. 13510), sia, soprattutto, una generale rilevanza “parascriminante” delle stesse che non assurgono “al rango di fonti di regole cautelari codificate, non essendo né tassative né vincolanti, e comunque non potendo prevalere sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la miglior soluzione per il paziente. Di tal che, pur rappresentando un utile parametro nell’accertamento dei profili di colpa medica, esse non eliminano la discrezionalità giudiziale, libero essendo il giudice di valutare se le circostanze del caso concreto esigano una condotta diversa da quella prescritta (Cass. pen. 16237/2013; 39165/2013). Non senza osservare, ancora, come il giudice delle leggi, con la sentenza n. 295 del 2013, abbia chiaramente specificato che la limitazione di responsabilità ex art. 3, comma 1 della cd. Legge Balduzzi (nel perimetro indicato) trovi il suo invalicabile limite nell’addebito di imperizia – giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia – e non anche quando l’esercente la professione sanitaria si sia reso responsabile di una condotta negligente e/o imprudente” (Cass., 09/05/2017, n. 11208, pag. 11);  [esatto ma anche ovvio]

<<non a caso la L. n. 24 del 2017, sia pure successiva ai fatti al pari della cd. legge Balduzzi come osserva il Pubblico Ministero, all’art. 5 fa anch’essa salva la specificità del caso concreto;

la Corte territoriale ha accertato, ancora in fatto, che, nello specifico caso, la nuova tecnica era di gran lunga più opportuna, per la sua capacità, già documentata, di ridurre in altissima misura il marcato rischio di complicanza poi infatti intervenuta, aggiungendo che si trattava di tecnica già conosciuta dalla comunità scientifica di settore, sebbene da pochi anni, e tale da aver “vicariato” quella tradizionale (pagg. 18-19);

parte ricorrente sostiene che si trattava di tecnica invece ancora sperimentale ed affatto conclusivamente validata, ma lo fa richiamando studi oggetto di allegazione che non dimostra come e quando processualmente svolta davanti ai giudici di merito, dunque nuova e non scrutinabile nella presente sede di legittimità a critica vincolata, oltre che perimetrata dall’inibizione di censura, anche sostanziale seppure non formalmente evocata, per omesso esame, stante la doppia conforme di merito di rigetto (art. 348-ter c.p.c., comma 5, applicabile “ratione temporis” e, peraltro, al contempo reintrodotto dal D.Lgs. n. 149 del 2022, come previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 4; né avrebbe potuto dirsi dimostrata, da parte ricorrente, la diversità delle ragioni di fatto poste a base delle due decisioni di merito: cfr. Cass., 22/12/2016, n. 26774, Cass., 28/02/2023, n. 5947);

il Collegio di merito ha così implicitamente quanto univocamente configurato, sul punto, un’ipotesi di colpa grave rispetto allo specifico caso;>>

2° ) <<e’ stato progressivamente chiarito il principio per cui nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico di cui quella si sia avvalsa, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo dev’essere di regola ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo dell’art. 1298 c.c., comma 2, e art. 2055 c.c., comma 3, in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all’utilizzazione di terzi per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile, e oggettivamente improbabile, devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione (Cass., 11/11/2019, n. 28987);

per ritenere superato l’assetto interno così ricostruito, non basta, pertanto, ritenere che l’inadempimento fosse ascrivibile alla condotta del medico, ma occorre considerare il composito e duplice titolo in ragione del quale la struttura risponde solidalmente del proprio operato, sicché sarà onere del “solvens”:

a) dimostrare – per escludere del tutto una quota di rivalsa – non soltanto la colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno, ma la derivazione causale di quell’evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un’ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni;

b) dimostrare – per superare la presunzione di parità delle quote, ferma l’impossibilità di comprimere del tutto quella della struttura, eccettuata l’ipotesi sub a) – che alla descritta colpa del medico si affianchi l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze nell’adempimento del contratto di spedalità da parte della struttura, comprensive di controlli atti a evitare rischi dei propri incaricati, da valutare in fatto, da parte del giudice di merito, in un’ottica di duttile apprezzamento della fattispecie concreta (Cass., 20/10/2021, n. 29001);>>

[già più interessante]

Responsabilità medica e incompletezza della cartella clinica

Cass. sez. III ord. 11/12/2023  n. 34.427, rel. Porreca:

fatto:

<<la Corte territoriale, sebbene abbia dichiarato carente d’interesse l’appello incidentale interposto dal dottor G. per far accertare l’insussistenza di una sua imperizia, proprio in ragione della conferma del rigetto della domanda risarcitoria per la ritenuta mancanza di prova del nesso causale (pag. 16), ha costruito il suo “iter” motivazionale muovendo dall’assunto del “già rilevato ritardo diagnostico e, dunque, terapeutico” (pag. 12), concludendo nel senso che le conseguenze pregiudizievoli iatrogene lamentate dall’attrice, correlate alla “”inutile” terapia adiuvante” (pag. 13), di tipo fortemente invasivo, avrebbero potuto affermarsi “solo nel caso in cui al (Omissis) il livello della neoplasia fosse stato di stadio IA o IB”;

ma – prosegue il ragionamento del Collegio di merito – poiché non vi era prova certa o nemmeno probabilistica di quale fosse, nel momento del primo ricovero e delle cure del dottor G., lo stadio neoplastico, e atteso che la prova del nesso causale incombeva sul richiedente il ristoro, la conclusione doveva essere il rigetto;>>

Diritto, con cassazione:

<<la motivazione dlla Corte territoriale innesca un cortocircuito logico, non altrimenti risolvibile, poiché imputa alla vittima la mancanza di una prova derivata proprio dall’assunta colpa del medico;

e’ la stessa Corte territoriale che, a riscontro di quanto riportato in ricorso nella cornice di ammissibilità dell’art. 366 c.p.c., n. 6, sottolinea come tale illogicità era stata oggetto di censura di appello (pag. 10), ma finisce poi per non spiegare le ragioni per le quali l’ha ritenuta superata, minando alla base la decifrabilità della sua motivazione;

la giurisprudenza di questa Corte in tema di responsabilità professionale sanitaria ha affermato che l’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può e deve utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno, ciò per una ragione prima logica che giuridica, oltre che per il principio di vicinanza della prova (Cass., 31/03/2016, n. 6209, Cass., 21/11/2017, n. 27561, Cass., 20/11/2020, n. 26428);

questo principio di specie ne sottende uno più generale, ossia quello per cui quando la mancata prova derivi dalle carenze colpose della condotta del medico, tipicamente omissive, e astrattamente idonee a causare il pregiudizio lamentato, quel “deficit” rileva non solo in punto di accertamento della colpa ma anche di quello del nesso eziologico, non potendo logicamente riflettersi a danno della vittima, sia pur in generale onerata della dimostrazione del rapporto causale;

in altri termini, la sentenza qui gravata non fa comprendere in alcun modo perché non rilevi nell’accertamento eziologico il mancato completamento dell’indagine diagnostica, che avrebbe in tesi, anche secondo le riportate ipotesi dei periti d’ufficio, potuto far acquisire i dati istologici idonei a dettagliare grado e stadio della malattia, e dunque, in ipotesi, approntare una terapia che, nella prospettiva ricostruttiva della stessa Corte territoriale, avrebbe potuto evitare le conseguenze iatrogene in discussione;

e’ vero che la sentenza afferma diffusamente la sussistenza di tale colpa del medico solo “”ad abundantiam”” dopo aver detto inammissibile, come anticipato, l’appello incidentale del dottor Giani, con statuizione peraltro “inutiliter data” proprio perché susseguente alla dichiarata (non in “obiter”: Cass., 11/03/2022, n. 7995) esclusione di ammissibilità del motivo di appello (Cass., Sez. U., 20/02/2007, n. 3840, e succ. conf.), ma è anche vero che, come pure constatato, lo fa dopo aver affermato l’ininfluenza del pur “rilevato ritardo diagnostico” per il mancato risconto del nesso di causalità materiale nei termini evidenziati;

non viene in gioco, quindi, una ricostruzione fattuale alternativamente e parimenti plausibile rispetto a quella della decisione censurata, e inammissibilmente inerente al sindacato di merito del relativo giudice, ma l’intrinseca illogicità della motivazione, in uno alla correlata violazione degli oneri probatori e della corretta sussunzione della fattispecie fattuale indiziaria in quella legale;>>

Il “problema tecnico di speciale difficoltà” nella prestazione sanitaria (art. 2236 cc) : è tale l’insorgere di complicanze?

Sulla speciale difficoltà della prestazione professionale sanitaria, interviene la Cassazione con qualche precisazione relativa alla c.d complicanze: Cass. sez. III – 16/11/2020, n. 25876 rel. Scoditti.

<< Va premesso che il problema tecnico di speciale difficoltà di cui all’art. 2236, in base al quale la responsabilità del professionista è limitata alle sole ipotesi di dolo o colpa grave, ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l’esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza (Cass. 31 luglio 2015, n. 16274). Nel campo medico essa non è identificabile con la mera complicanza (Cass. 22 novembre 2012, n. 20586) [meglio: non ricorre automaticamente quando insorga una complicanza] la quale ben può ricorrere in intervento di natura routinaria, salvo la prova da parte del sanitario della presenza del problema tecnico di speciale difficoltà (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24074).   [La SC però non distingue bene tra complicatezza del problema originario e complicatezza del problema sopravvenuto a seguito della complicanza; o forse, tra complicatezza del problema nei termini iniziali e sua complicatezza nei nuovi termini dopo la complicanza, volendolo considerare un problema unico]

La difficoltà interpretativa della crisi del paziente, evidenziata dalla CTU nei termini di una compatibilità con il coma iperglicemico, non è suscettibile di qualificazione nei termini di problema tecnico di speciale difficoltà, apparendo piuttosto una complicanza insorta nel corso dell’intervento. La mera difficoltà del quadro sintomatologico non pare di per sè capace, in mancanza di altre circostanze, di ascendere allo stadio del problema tecnico di speciale difficoltà. Che di complicanza si sia trattato, lo si evince anche dal giudizio di fatto del giudice di merito il quale ha valutato come errata la somministrazione di insulina in modo indipendente dall’interpretazione della crisi del paziente, avendo precisato che delle due l’una, o il coma ipoglicemico, in cui il paziente versava al momento dell’ingresso nell’ospedale, era stato provocato da un eccessivo quantitativo di insulina o il coma era stato, fin dall’inizio, ipoglicemico e, di conseguenza, la terapia non era stata adeguata. Alla stregua di tale giudizio di fatto, reputando la sintomatologia compatibile con un corna iperglicemico, secondo quanto sarebbe apparso in un primo momento (come evidenziato dalla CTU), il quantitativo di insulina somministrato sarebbe stato eccessivo>>.

La Cassazione torna sull’onere della prova nella responsabilità medica

Secondo Cass. 13.07.2018 n .18549, est.: Porreca , <<nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente danneggiato dimostrare con qualsiasi mezzo di prova l’esistenza del nesso di causalità  -secondo il criterio del <<più probabile che non>>- tra la condotta del medico e il pregiudizio di cui si chiede il ristoro : con la conseguenza che -ove al termine dell’istruttoria il suddetto nesso non risulti provato- la domanda va rigettata<< (massima de Il Foro It., 2018/11, I, 3570)

Si leggono alcune considerazioni interessanti nel § 2

  1. Nei giudizi di risarcimento contrattuale e anche extracontrattuale, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti, sì che la sussistenza della prima non comporta di per sè la dimostrazione del secondo e viceversa.
  2. L’articolo 1218  solleva il creditore dell’obbligazione, che si afferma non adempiuta, dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra condotta debitoria e danno chiesto in risarcimento.
  3. Infatti :
    1. la previsione dell’articolo 1218 si giustifica nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente l’onere della prova positiva dell’avvenuto adempimento , sulla base del criterio della maggiore vicinanza   alla prova, secondo cui va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla;
    2. questa maggior vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale, per il quale dunque non ha ragion d’essere l’inversione dell’onere della prova di cui all’articolo 1218;
    3. ciò vale sia con riferimento al nesso causale materiale sia in relazione al nesso causale giuridico,
    4. trattandosi di elementi egualmente distanti da entrambe le parti (anzi -circa il secondo- maggiormente vicini al danneggiato),  non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una prova liberatoria rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento;
    5. nè può valere in senso contrario il riferimento dell’art. 1218 alla causa non imputabile ( “(…) se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”). Infatti, come già affermato da Cass. 26.07.2017 n. 18.392, la causa in questione attiene alla non imputabilità della impossibilità di adempiere, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituente <<tema di prova della parte debitrice>>, e concerne un ciclo causale che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto [segue la teoria del doppio ciclo causale introdotto dalla cit. Cass. , est. Scoditti, i cui passaggi essenziali sul punto riporto nel mio post 4 dicembre u.s.]
    6. ciò non contrasta con Cass. sez. un. 11.01.2008 n. 577 [la quale secondo molta dottrina è stata la prima ad introdurre la presunzione del nesso di causalità, onerando il debitore -cioè il medico- di provarne l’eventuale assenza] : in tale decisione infatti il principio era stato affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento qualificato, allegato dall’attore, era tale da comportare di per sè, in assenza di fattori alternativi più probabili nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’articolo 2697 secondo comma, e non la prova liberatoria richiesta dall’articolo 1218.

responsabilità civile e onere della prova del nesso di causa

Insegnamento della S.C. sul tema in oggetto, che vale per entrambe le specie di responsabilità civile (aquiliana e da violazione di obblighi). Secondo Cass. , sez. III, 30 novembre 2018 N. 30998 (rel. Rossetti):

<<5-Il settimo motivo di ricorso.
5.1. Col settimo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2236 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 40 e 41 c.p..
Al di là di tali richiami normativi, nell’illustrazione del motivo si denuncia l’inversione, da parte della Corte d’appello, delle regole sul riparto dell’onere della prova.
Vi si sostiene che nel caso in cui rimanga incerto il nesso di causa tra la condotta del medico e il danno patito dal paziente, tale incertezza deve ricadere sul medico e non sul paziente.
5.2. Il motivo è infondato.
Nel nostro ordinamento esistono molte norme che sollevano l’attore dall’onere di provare la colpa del convenuto, sia in materia di contratti (ad esempio, gli artt. 1218 o 1681 c.c., o il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 178), sia in materia di fatti illeciti (ad esempio, gli artt. 2048 c.c. e ss.).
Non esiste, invece, alcuna norma che sollevi l’attore dall’onere di provare il nesso di causa (rectius, i fatti materiali sui quali fondare il giudizio di causalità) tra l’inadempimento o il fatto illecito, ed il danno che si assume esserne derivato.
Tale non è, in particolare, l’art. 1218 c.c., per due diverse ragioni.
La prima è che tale norma si fonda sul principio della vicinanza alla prova (così le Sez. U, Sentenza n. 13533 del 30/10/2001, Rv. 549956 – 01), principio che è sussiste con riferimento alla prova della diligenza della condotta (che attiene alla sfera giuridica del debitore), ma è inconcepibile con riferimento alla prova del nesso tra illecito e danno, che si realizza nella sfera giuridica del creditore.
La seconda ragione è che l’art. 1218 c.c., là dove richiede al debitore di provare “che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”, richiede la prova della “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere”, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione (costituenti “tema di prova della parte debitrice”), e concerne un ciclo causale ben distinto da quello che ha prodotto l’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto.
Altra è la causa che ha determinato l’impossibilità di adempimento, ben altra è la causa che ha determinato il danno: l’art. 1218 c.c. addossa al debitore l’onere di prova l’esistenza della prima, ma non l’onere di provare l’inesistenza della seconda.
Poichè dunque il nesso di causa tra fatto illecito e danno è un fatto costitutivo del diritto al risarcimento, la prova di esso grava su chi di quel danno invoca il ristoro, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c..
Resta solo da aggiungere che tale regola vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia alla individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo).
5.3. I principi appena esposti sono ormai pacifici nella giurisprudenza più recente di questa Corte: da ultimo, in tal senso, Sez. 3 -, Sentenza n. 3704 del 15/02/2018, Rv. 647948 – 01, secondo cui “nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata”; nello stesso senso, Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018, Rv. 649949 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 29315 del 07/12/2017, Rv. 646653 – 01, e Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017.>>

Pare riprendere la teoria del duplice ciclo causale proposta Cass. 26.07.2017 n° 18.392, est. Scoditti