Risarcimento del danno da chiusura dell’attività di impresa per infiltrazioni nell’immobile

Dopo due gradi con esito negativo , l’imprenditore danneggiato da infiltrazoni nei suoi locali tenta il ricorso in Cassazione. Ma gli va ancora male.

Questo il passaggio principale sulla liquidazione equitativa ex art. 1226 cc, svolto da Cass. n. 31.251 del 03.11.2021, rel. Scarpa A.: <<Alla liquidazione del danno il giudice può procedere anche in via equitativa, in forza del potere conferitogli dagli artt. 1226 e 2056 c.c., restando, peraltro, la cosiddetta equità giudiziale correttiva ed integrativa subordinata alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare e, a un tempo, non comprendendo tale potere giudiziale anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo la liquidazione equitativa già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità materiale del danno subito>>

E poi: <<Ora, i danni derivanti dalla perdita del guadagno di un’attività commerciale per loro stessa natura evidenziano la pratica impossibilità di una precisa dimostrazione (cfr. Cass. Sez. 3, 24/04/1997, n. 3596; Cass. Sez. 1, 13/01/1987 n. 132). Ciò non di meno, spetta all’attore l’onere di fornire elementi, di natura contabile o fiscale, con riguardo, indicativamente, alla consistenza ed alla redditività dell’esercizio commerciale, al fatturato e agli utili realizzati negli anni precedenti, all’incidenza del pagamento del canone e degli oneri connessi alla locazione. Invero, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., non esime la parte interessata  dall’onere di dimostrare non solo l'”an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre (cfr. Cass. Sez. 3, 17/10/2016, n. 20889).>>

La responsabilità risarcitoria da illecito concorrenziale (cartello vietato), accertato in capo alla società madre, si estende pure alla società figlia

Nella causa C-882/19, Sumal c. Mercedes, è arrivata la sentenza 06.10.2021 della corte di giustizia , dopo le conclusioni dell’AG (più articolate).

Il danneggiato ha azione anche verso la società figlia: questo il responso.

Questioni pregiudiziali, § 15:

«[1])      Se la dottrina dell’unità economica che deriva dalla giurisprudenza della stessa [Corte] giustifichi l’estensione della responsabilità della società madre alla società figlia oppure se tale dottrina si applichi solo ai fini di estendere la responsabilità delle società figlie alla società madre.

[2])      Se la nozione di unità economica debba essere estesa nell’ambito dei rapporti infragruppo facendo esclusivamente riferimento a fattori relativi al controllo o se possa fondarsi anche su altri criteri, tra cui il fatto che la società figlia abbia potuto trarre beneficio dalle infrazioni.

[3])      Nel caso in cui sia riconosciuta la possibilità di estendere la responsabilità della società madre alla società figlia, quali siano i relativi requisiti.

[4])      Se la risposta alle precedenti questioni fosse favorevole a riconoscere l’estensione alle società figlie della responsabilità delle società madri per le condotte poste in essere da queste ultime, se sia compatibile con tale orientamento [della Corte] una norma nazionale, come l’articolo 71, paragrafo 2, della [legge sulla tutela della concorrenza], che contempla unicamente la possibilità di estendere la responsabilità della società figlia alla società madre, purché sussista una situazione di controllo della società madre sulla società figlia».

Risposta (sulla 2 e 3):

<<48   … un’entità giuridica che non sia indicata in tale decisione come autrice dell’infrazione al diritto della concorrenza può nondimeno essere sanzionata per il comportamento illecito di un’altra persona giuridica allorché tali persone giuridiche facciano tutte e due parte della stessa entità economica e formino così un’impresa, che è l’autrice dell’infrazione ai sensi del citato articolo 101 TFUE (…)

49      Infatti, la Corte ha già dichiarato che il rapporto di solidarietà che unisce i membri di un’unità economica giustifica in particolare l’applicazione della circostanza aggravante della recidiva nei confronti della società madre sebbene quest’ultima non sia stata oggetto di precedenti procedimenti, che hanno dato luogo a una comunicazione degli addebiti e a una decisione. In una situazione del genere, appare determinante il precedente accertamento di una prima infrazione derivante dal comportamento di una società figlia con la quale detta società madre, coinvolta nella seconda infrazione, formava, già all’epoca della prima infrazione, una sola impresa ai sensi dell’articolo 101 TFUE (…)

50     Di conseguenza, nulla osta, in linea di principio, a che la vittima di una pratica anticoncorrenziale proponga un’azione di risarcimento danni nei confronti di una delle entità giuridiche che costituiscono l’unità economica e, pertanto, dell’impresa che, commettendo una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, abbia causato il danno subito da tale vittima.

51     Pertanto, ..  la vittima di tale infrazione può legittimamente cercare di far valere la responsabilità civile di una società figlia di tale società madre anziché quella della società madre, conformemente alla giurisprudenza citata al punto 42 della presente sentenza. La responsabilità della società figlia in parola può tuttavia sorgere solo se la vittima prova, sulla base di una decisione adottata in precedenza dalla Commissione in applicazione dell’articolo 101 TFUE, o con qualsiasi altro mezzo, in particolare qualora la Commissione abbia taciuto su tale punto in detta decisione o non sia stata ancora chiamata ad adottare una decisione, che, tenuto conto, da un lato, dei vincoli economici, organizzativi e giuridici di cui ai punti 43 e 47 della presente sentenza e, dall’altro, dell’esistenza di un legame concreto tra l’attività economica di tale società figlia e l’oggetto dell’infrazione di cui la società madre è ritenuta responsabile, la suddetta società figlia costituiva un’unità economica con la sua società madre.

52     Dalle considerazioni che precedono risulta che una siffatta azione di risarcimento danni proposta nei confronti di una società figlia presuppone che il ricorrente provi (…) i vincoli che uniscono tali società menzionati al punto precedente di quest’ultima, nonché il legame concreto, di cui al medesimo punto, tra l’attività economica di tale società figlia e l’oggetto dell’infrazione di cui la società madre è stata ritenuta responsabile. Pertanto, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, la vittima dovrebbe dimostrare, in linea di principio, che l’accordo anticoncorrenziale concluso dalla società madre per il quale essa è stata condannata riguarda gli stessi prodotti commercializzati dalla società figlia. Così facendo, la vittima dimostra che è proprio l’unità economica cui appartiene la società figlia, insieme alla sua società madre, che costituisce l’impresa che ha effettivamente commesso l’infrazione previamente accertata dalla Commissione ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, conformemente alla concezione funzionale della nozione di «impresa» accolta al punto 46 della presente sentenza.

53   (…)  54    A questo proposito, detta società figlia deve poter confutare la sua responsabilità per il danno lamentato, in particolare facendo valere qualsiasi motivo che avrebbe potuto dedurre se fosse stata coinvolta nel procedimento avviato dalla Commissione nei confronti della sua società madre, che ha portato all’adozione di una decisione della Commissione che constata l’esistenza di un comportamento illecito contrario all’articolo 101 TFUE (public enforcement).

55   Tuttavia, per quanto riguarda la situazione in cui un’azione di risarcimento danni si basa sulla constatazione, da parte della Commissione, di un’infrazione all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE in una decisione rivolta alla società madre della società figlia convenuta, quest’ultima non può contestare, dinanzi al giudice nazionale, l’esistenza dell’infrazione così accertata dalla Commissione. Infatti, l’articolo 16, paragrafo 1, del regolamento n. 1/2003 prevede, segnatamente, che quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano su accordi, decisioni o pratiche rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 101 TFUE che sono già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione>>.

Responsabilità medica e consenso informato

Cass. 18.283 del 25.06.2021, rel. Scarano, interviene su na una fattispecie di responsabilità medica ove era anche stata dedotta una violazione del dovere di ottenere il consenso infomato(CI).

Non ci sono novità particolari ma solo un (utile) promemoria della disciplina del CI.

  • sono due distinti diritti quello al CI e all’intervento esattamente eseguito
  • il tipo di informazione da dare: <<l’informazione deve in particolare attenere al possibile verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 30/7/2004, n. 14638), dei rischi di un esito negativo dell’intervento (v. Cass., 12/7/1999, n. 7345) e di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente (v. Cass., 14/3/2006, n. 5444), ma anche di un possibile esito di mera “inalterazione” delle medesime (e cioè del mancato miglioramento costituente oggetto della prestazione cui il medico-specialista è tenuto, e che il paziente può legittimamente attendersi quale normale esito della diligente esecuzione della convenuta prestazione professionale), e pertanto della relativa sostanziale inutilità, con tutte le conseguenze di carattere fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla prospettiva di subire una nuova operazione, ecc.) che ne derivano per il paziente (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826).La struttura e il medico hanno dunque il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell’intervento, a suoi rischi, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili nonchè delle implicazioni verificabili, esprimendosi in termini adatti al livello culturale del paziente interlocutore, adottando un linguaggio a lui comprensibile, secondo il relativo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (v. Cass., 19/0/2019, n. 23328; Cass., 4/2/2016, n. 2177; Cass., 13/2/2015, n. 2854>>.
  • il CI va ottenuto <<anche qualora la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poichè la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni (v. Cass., 19/9/2014, n. 19731).>>
  • non può mai essere presunto o tacito <ma sempre espressamente fornito>
  • la struttura e il medico vengono  meno all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente <<non solo quando omettono del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando acquisiscano con modalità improprie il consenso dal paziente (v. Cass., 21/4/2016, n. 8035).  Si è da questa Corte ritenuto ad esempio inidoneo un consenso ottenuto mediante la sottoposizione alla sottoscrizione del paziente di un modulo del tutto generico (v., da ultimo, Cass., 19/9/2019, n. 23328; Cass., 4/2/2016, n. 2177), non essendo a tale stregua possibile desumere con certezza che il medesimo abbia ricevuto le informazioni del caso in modo esaustivo (v. Cass., 8/10/2008, n. 24791) ovvero oralmente (v. Cass., 29/9/2015, n. 19212, ove si è negato che -in relazione ad un intervento chirurgico effettuato sulla gamba destra di un paziente, privo di conoscenza della lingua italiana e sotto narcosi – potesse considerarsi valida modalità di acquisizione del consenso informato all’esecuzione di un intervento anche sulla gamba sinistra, l’assenso prestato dall’interessato verbalmente nel corso del trattamento)>>
  • il consenso oralmente prestato non è detto che sia sempre necessariamanente invalido: <<In presenza di riscontrata (sulla base di documentazione, testimonianze, circostanze di fatto) prassi consistita in (plurimi) precedenti incontri tra medico e paziente con (ripetuti) colloqui in ordine alla patologia, all’intervento da effettuarsi e alle possibili complicazioni si è invero ritenuto idoneamente assolto dal medico e/o dalla struttura l’obbligo di informazione e dal paziente corrispondentemente prestato un pieno e valido consenso informato al riguardo, pur se solo oralmente formulato (cfr. Cass., 31/3/2015, n. 6439. Cfr. altresì Cass., 30/4/2018, n. 10325).>>

Risarcimento del danno antitrust da intesa vietata in base alla nuova normativa (d. lgs. 3 del 2017)

Trib. Napoli 06.07.2021, n. 6319/2021, RG 4754/2019, affronta il tema in oggetto toccando più punti, interssanti sia in pratica che in teoria.

Si tratta forse del primo provvedimento sull’oggetto, come ritiene pure il Tribunale, p. 8

la richeista danni derivava dall’acquisto a prezzo sovracompetitivo di un autocarro da un distributgore di una nota casa  europea, partecupe di un’intesa collusiva accertata dalla Commissione UE nel 2016.

Ricordo alcuni punti:

1 – prescrizione: decore da quanto l’istruttoria ammkinistrativa si  èconclusa <<L’eccezione di prescrizione, ad avviso del Tribunale, non è fondata. Essa trascura il fatto che solo nel 2016, con la definizione della procedura attraverso il suo concordato esito (settlement), si è potuto avere contezza dell’ingiustizia del danno (che è requisito fondamentale senza il quale non può radicarsi alcun diritto risarcitorio) e, pertanto, solo da tale data, deve ritenersi che l’attrice abbia avuto piena contezza dell’illecito in questione. Giova, inoltre, evidenziare che, negli stessi resoconti di stampa depositati dalla convenuta, si riporta l’originario comunicato della Commissione che afferma che l’inizio dell’indagine non significa necessariamente che le imprese siano “colpevoli”.>>

2 – il settlment  tra Commissione a imprese indagate: è equiparabile alla sanzione quanto ad accertamento dell’illecito: <<Non pare, però al Collegio, che dall’esito negoziale della vicenda sanzionatoria possano discendere le conseguenze auspicate dalla convenuta. Invero, il settlement è strumento assurto a dignità di normazione europea (art. 10 bis Regolamento CE 773/2004, come modificato dal Reg.622/2008, già in precedenza ricordato) e costituisce un esito transattivo della controversia connotato dall’accettazione completa, da parte dei soggetti colpiti da procedura di accertamento di illecito anticoncorrenziale, dell’esistenza di questo e della ritenuta sua efficacia lesiva della concorrenza. Da questo punto di vista, il settlementcostituisce uno strumento agile, un modo alternativo di risoluzione delle dispute, che vede la partecipazione delle società incolpate in colloqui e trattive prolungate (come successo nel caso di specie e come è dato leggere nel relativo provvedimento della Commissione europea in atti) e con conseguente accettazione delle sanzioni pecuniarie proposte.>>.

Qui il trib. è impreciso, a rigore: nella transazione -in sensocivilistico e secondo la concezione nazionale- non esiste alcun accertamento/riconoscimento dei diritti pregressi e solo si pattuisce sul futuro.

E poi: <<Va quindi concluso che la intesa sanzionata che costituisce prova della esistenza di una condotta violativa delle regola della concorrenza comporta la presunzione del trasferimento dei danni da sovraprezzo da monte a valle con fondatezza della domanda attorea, perché manca la prova contraria cui era onerata la parte convenuta che si è limitata, nella subordinata, a sostenere che la parte attrice non avrebbe comunque diritto al rimborso dell’intero sovrapprezzo sostenuto per l’acquisto dell’autocarro per cui è causa, ma solo di una parte dello stesso cioè di quella parte calcolata al netto di quanto già risparmiato in termini di imposte e nulla più>>, p. 15.

3 – c’è legittimazione ade agire dell’acquirente indiretto, p. 12.

4 –  è illecito di natura aquiliana, p. 14

5 – quantificazione: il sopvraprezzo costituente danno era stato stimato nel 20 % dall’attore (forse sulla base di precedenti giudiziali o amministrativi), ma stabilito nel 15 per cento in via equitativa dal Trib.

Profili processuali sul risarcimento del danno da illecito trattamento dati ex art. 15 cod. privacy

Qualche spunto processuale sul risarcimento del danno ex art. 15 cod. privacy (testo allora vigente) in Cass. ord. 14.618 del 26.5.2018, PF c. Comune di Cellara CS.

Oggi analoga disposizione sta nell’art. 82 del reg. _UE GDPR.

<<2.3. Risulta decisivo osservare che l’illegittimo trattamento di dati sensibili D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 4 configurabile come illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., non determina un’automatica risarcibilità del danno poichè il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) deve essere provato dal danneggiato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l’entità e la difficoltà di assolvere l’onere probatorio, trattandosi di un danno-conseguenza e non di un danno-evento, senza che rilevi in senso contrario il suo eventuale inquadramento quale pregiudizio non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente garantiti (Cass. n. 15240 del 03/07/2014). Tuttavia, poichè i danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali, in base al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15 sono assoggettati alla disciplina di cui all’art. 2050 c.c., il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l’attività di trattamento dei dati, mentre incombe al danneggiante la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno stesso (Cass. n. 10646 del 26/06/2012; Cass. n. 18812 del 05/09/2014).

2.4. La ricorrente opera una non condivisibile sovrapposizione tra i rispettivi oneri probatori e confonde l’onere della prova del danno e del nesso di causalità, che gravava su di lei, con l’onere di provare la condotta scriminante ex art. 2050 c.c., che gravava sull’autore del fatto illecito, senza cogliere la ratio decidendi focalizzata proprio sulla mancata prova dell’assunto costituito dalla avvenuta pubblicazione on cine della delibera in versione integrale, posto che dalle deposizioni dei testi ( F. e M., oltre che C., padre della amministrata) non era emerso che gli stessi avessero visionato il testo integrale della delibera on line>>

I fatti storici sottostanti:

<<P.F., nella qualità di amministratrice di sostegno di C.A., aveva chiesto al Tribunale di Cosenza la condanna del Comune di Cellara al risarcimento dei danni subiti dall’amministrata a causa della pubblicazione sull’albo pretorio on-line del Comune di Cellara della (OMISSIS) con la quale era stata accolta la richiesta di ricovero della stessa presso un centro socio-riabilitativo diurno per disabili, contenente informazioni sul suo stato di salute. Il Comune aveva resistito.>>

Risarcimento del danno a carico del Comune per intollerabililità dei rumori provenienti dalla movida notturna, favorita dalle scelte urbanistiche del Comune stesso

Interessante decisione del Trib. Torino n. 1261/2021 del 15.03.2021,  RG 6130/2018 in tema di azione per condanna ad un facere e ai danni da rumori eccessivi, causati dal pesante disagio di chi abita un quartiere divenuto centro della movida torinese, azione promossa da un gruppo di abitanti

<<La lettura dei provvedimenti prodotti con la comparsa di costituzione e ivi elencati (cfr. paragrafo n. 2) consente di affermare che il Comune di Torino ha compiuto precise scelte a fronte dei fenomeni oggi in esame. L’aggregazione di persone che è causa di degrado, sporcizia, disturbo del riposo e della tranquillità, che produce disagi e pericoli, che provoca lo scadimento della vivibilità urbana, che turba il libero utilizzo degli spazi pubblici è posta dallo stesso Comune in relazione con l’attività degli esercizi commerciali; ai gestori è fatto carico di positive e ben specificate attività di dissuasione, da svolgere anche all’esterno dei locali e nelle loro adiacenze>>.

L’ovvia deduzione è che i provvedimenti del Comune a carico di questo variegato universo commerciale <<sono stati del tutto insufficienti. Se c’è gente ovunque significa che nessuno degli esercenti ha rispettato l’obbligo di controllarne l’afflusso nelle proprie adiacenze: dunque, assai più locali avrebbero dovuto essere sanzionati o chiusi. Se un numero imprecisato di dehors ha invaso il suolo pubblico e vi si svolgono attività, non consentite, di somministrazione di alimenti e bevande, il Comune avrebbe dovuto revocare i relativi atti autorizzativi, sino a liberare le strade e a concentrare le consumazioni all’interno dei locali. Una criticità così elevata avrebbe richiesto un adeguato piano di risanamento acustico, che, a quanto risulta, non è stato neppure intrapreso. Vi è poi, di centrale importanza, la questione del limite orario. L’ordinanza n. 46 del 6 giugno 2016 vieta la vendita e la somministrazione di bevande alcooliche e superalcooliche dalle ore 3.00 alle ore 6.00. Orari analoghi sono stati disposti nell’ordinanza n. 60 del 6 luglio 2017: nelle notti tra il lunedì, martedì, mercoledì e giovedì dalle ore 1.30, il venerdì dalle ore 2.00, il sabato, la domenica e i festivi dalle ore 3.00. Si è già accennato che, a seguito della deliberazione della Giunta comunale del 3 maggio 2018, tali limitazioni non sono più disciplinate attraverso singoli provvedimenti temporanei, ma sono regolamentate in via ordinaria dall’art. 44 ter del regolamento di polizia urbana. È evidente che fissare orari così ampi equivale a permettere tutto: nella sostanza, l’assembramento degli avventori può continuare fino a notte fonda e, verosimilmente, protrarsi, prima che la folla si diradi, ben oltre gli orari pur permissivi.>>.

E’ rigettata la domadna di condanna ad un facere (prob. come inibitoria preventiva, sistematicamente): <<Di sicuro gli orari di chiusura devono essere drasticamente ridotti, ma se ciò debba avvenire per il solo quartiere di San Salvario (con l’effetto che la movida potrebbe spostarsi altrove), o, in concomitanza, per altre determinate zone a rischio, è il Comune di Torino a doverlo decidere, nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche di gestione del territorio. Ciò che il Comune deve fare (e non ha fatto) è un’analisi approfondita della situazione complessiva, verosimilmente quella richiesta dal piano di risanamento acustico, intervenendo, nel frattempo, con misure d’urgenza assai più pregnanti di quelle fin qui adottate. Non è infine il giudice a poter organizzare il servizio di vigilanza di un intero quartiere, andando a incidere sulla distribuzione della Polizia municipale nel suo complesso e sul coordinamento con le altre Forze preposte al controllo della pubblica sicurezza. Qui non si tratta di risolvere i problemi di una strada o di una piazza o di un tratto di lungomare; né di ordinare la collocazione di pannelli antirumore lungo un’autostrada o una linea ferroviaria, ma di decidere l’assetto di un intero territorio, con effetti su tutta la città. Alla responsabilità del Comune di Torino consegue quindi il solo risarcimento dei danni>>.

E dunque sui danni: <<I ricorrenti non hanno allegato alcuna compromissione della salute che sia esitata in malattia, ma hanno parametrato la loro richiesta di risarcimento riferendosi ai criteri tabellari del Tribunale di Milano per la quantificazione del danno biologico: il riferimento non è dunque condivisibile. Né lo è la qualificazione del danno come invalidità temporanea al cinquanta per cento, sulla base di un’età media di quarant’anni. Questo criterio di liquidazione è criticabile sotto vari aspetti. In primo luogo, le tabelle milanesi non calcolano l’invalidità temporanea in base a fasce di età; in secondo luogo, non si vede per quale ragione si dovrebbe considerare un’età “media” invece dell’età di ciascun ricorrente. Ma, soprattutto, il concetto di invalidità temporanea si riferisce a un fatto foriero di danno verificatosi in un dato momento e che, a partire da quel momento, genera conseguenze pregiudizievoli provvisorie e via via meno gravi. Tale situazione non ha nulla in comune con quella in esame, in cui ciascuno dei ricorrenti ha continuato a subire, nel tempo, i medesimi effetti di una situazione pregiudizievole continuativa. Questo peculiare danno di carattere non patrimoniale non può che essere valutato con criterio equitativo, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., non potendo essere provato nel suo preciso ammontare>>.

Violazione di marchio, determinazione del danno e rifiuto di ostensione delle scritture contabili da parte dei convenuti

Il Trib. Milano (poi: T.)  con sentenza 29.03.2021 n. 2622/2021-RG 47381/2015, Alfredo Salvatori srl c. fall. Stone Project srl e altri, ha deciso una lite su violazione di marchio.

Qui interessa riferire della questione della determinazione del danno (da lucro cessante), resa complicata dal fatto che i covnenuti si erano rifiutati di produre le scritture contabili: pertanto di forte interesse pratico.

Il T. non si ferma per questo e adotta il criterio equitativo ex art. 1226 cc (e 125 cpi) nei seguent itermini, p. 10 ss.

Non potendo adottare quello consueto del margine opertivo lordfo  MOL (il quale si ottiene moltiplicando il prezzo praticato dal titolare del diritto leso per il numero di pezzi venduti dal contraffattore, al netto dei costi variabili che il titolare avrebbe sostenuto per la produzione dei prodotti interessati), ha usato i dati desumibili dai bilancio depositati in CCIAA.

Ha inoltre tratto altre informazioni (numero di prodotti venduti) dal sito delle stesse convenute.

Ha quindi individuato quali siano stati i ricavi dei prodotti recanti il marchio contraffatto (ricavo unitario)

Fatto ciò, il tribunale ha ritenuto condivisibile <<quanto indicato da parte attrice circa l’utilizzo del criterio del giusto prezzo, il quale consente di determinare il lucro cessante in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso. Nel caso in esame, tale royalty deve essere determinata equitativamente, in considerazione del vantaggio che altrimenti ne deriverebbe per il contraffattore nel vedersi assicurata una licenza “obbligatoria” senza sostenere i relativi costi e oneri>>.

Passando all’ammontare, il T. ha ritenuto <<congrua applicare una royaltydeterminata nella misura pari al 15% del fatturato, tenuto conto sia della rilevanza del marchio silk georgette, comprovato dal fatto che diversi operatori del settore avevano scelto di utilizzare tale segno per contraddistinguere i medesimi prodotti, sia di una maggiorazione dovuta alla illiceità della condotta delle convenute, con la conseguenza che il valore della licenza di uso deve essere determinato per Granitasia Srl in € 24.941,748 (15% di € 166.278,32) e per Abitare Marmo Srl in € 13.090,968 (15% di € 87.273,12). Le somme così determinate sono onnicomprensive di interessi e di rivalutaizone>>

Si tratta di ammontare frequente nelle licenze volontarie.

Ha poi liquidato euro 8.000,00 a titolo di danno morale (in solido tra i convenuti), espressamente ammesso dall’art. 125/1 cpi.

Responsabilità professionale dell’avvocato

Il Tribunale di Vicenza con sent. 05.02.2021 n. 302/2021, RG n. 1993/2018, decide con interessante sentenza una lite tra clienti e avvocato (notizia e link alla sentenza da  www.ilcaso.it ).

L’addebito (a parte altri meno interessanti) era  quello di aver lasciato decorrere il termine lungo per l’appello dopo una setneza sfavorevole: la quale aveva rigettato la domanda di nullità di un mutuo fondiario, perchè utilizzato a fini di solo interesse della banca e quindi in violazione della normativa del TUB.

Il T. prima ricorda la disciplina e giurisprudenza in tema di inadempimento e responsabilità professionale: spt. <<per quanto concerne il profilo dell’accertamento della causalità ai fini dell’affermazione della responsabilità professionale del difensore, la Suprema Corte ha chiarito a più riprese che in materia vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, destinata a trovare applicazione in luogo del più stringente principio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio” che regola, invece, la responsabilità penale>>, p. 9.

Quindi per il T. <<l’errore professionale in cui è incorso l’avv. …. per non avere tempestivamente comunicato agli attori l’avvenuto deposito della sentenza del Tribunale di Vicenza n. 163/2017 (doc. 3 fascicolo attoreo) emerge indiscutibilmente dagli atti di causa>>.

Tuttavia, nonostante l’acclarata inadempienza del difensore, nessun risarcimento <<può essere riconosciuto in capo a PALMIERI ANTONIO e MURARO CARMELA, difettando la dimostrazione dell’effettiva esistenza di un danno eziologicamente ricollegabile all’errore professionale in cui è incorso l’avv. MAI.
Ed, infatti, come si è in precedenza evidenziato, ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’avvocato non basta che il cliente fornisca la prova del negligente adempimento dell’incarico conferito, occorrendo, altresì, la dimostrazione che, senza l’inadempimento, il risultato sarebbe stato almeno con elevata probabilità conseguito.     Nel caso di specie gli attori hanno trascurato di fornire gli elementi alla cui stregua condurre quel giudizio controfattuale che solo consentirebbe di accertare, in chiave prospettica, la relazione causale tra l’inadempimento e la perdita di un risultato probabile, e non meramente sperato>>.

In pratica, non hanno dimostrato che la sentenza avrebbe avuto buone possibilità di essere riformata , ad es .per l’esistenza di autorevoli voci contrarie alla tesi da essa seguita.

Ottimo caso di scuola sulla distinzione tra inadempimento e responsabilità.

La cosa più interessante è che il T., per la stessa ragione, riconosce all’avvocato convenuto il diritto al compenso, da lui chiesto in riconvenzionale: se il cliente non  prova un danno, il mero inadempimento non lo esonera dal pagamento del compenso.

Per sottrarsi al pagamento del compenso, si sarebbe potuto esplorare la via della risoluzione del contratto (poteva già considerarsi cessato il rapporto?) o della eccezione di inadempimento. Ma in sentenza non ve ne è menzione, per cui gli attori probabilmente non le avevano invocate.

Sulla imputabilità alla controllata dell’illecito antitrust commesso dalla controllante : si pronuncia l’AG

L’avvocato generale Pitruzzella (AG)  nella causa C-882/19 Sumal contro Mercedes Benz Trucks Espana, ha presentato il 15 aprile 2021 le sue conclusioni .

La Commissione nel 2016 aveva accertato accordi collusivi tra i principali produttori di autocarri , tra cui Daimler.

Un acquirente di autocarri spagnolo cita in causa la controllata spagnola di Daimler, appunto Mercedes Benz Trucks Espana, per sovrapprezzo anticoncorrenziale, chiedendo il risarcimento dei danni

Essendo il cartello stato accertato nei confronti della capogruppo/controllante e non della controllata, quest’ultima eccepisce subito il difetto di legittimazione passiva

L’AG , a conclusione di un articolato ragionanento, ritiene che la controllata abbia legittimazione passiva per la domanda risarcitoria di danni cagionati dalla controllante.

Egli ricorda la centralità del concetto di impresa come unità economica nel diritto antitrust europeo . Ricorda che <<  La teoria dell’«unità economica» è stata elaborata intorno agli anni ’70 e utilizzata dalla Corte sia per escludere dall’ambito di applicazione del divieto di cui all’attuale articolo 101 TFUE gli accordi infragruppo (16), sia per imputare, all’interno di un gruppo di società, il comportamento anticoncorrenziale di un’affiliata alla capogruppo, inizialmente in situazioni in cui veniva eccepita l’incompetenza della Commissione a sanzionare quest’ultima, non avendo essa agito direttamente all’interno della Comunità>>, § 27.

(a ciò si può aggiungere qualche altra finalità, ad esempio la determinazione del fatturato ai fini delle sanzioni).

Le ragioni di questa estensione di responsabilità “ascendente” (dalla controllata alla controllante), possono essere due: o l’esercizio di influenza determinante, § 34, o l’esistenza stessa (in sè, potremmo dire) di un’unità economica, § 35: <<per altro verso, nella giurisprudenza si ritrovano altresì diversi elementi che militano nel senso di ritenere che sia l’esistenza stessa di un’unità economica a determinare la responsabilità della società madre per i comportamenti anticoncorrenziali della controllata. La Corte ha più volte sottolineato che la formale separazione tra due entità, conseguente alla loro personalità giuridica distinta, non esclude l’unità del loro comportamento sul mercato (34) e, pertanto, che esse costituiscano un’unità economica, vale a dire un’unica impresa, ai fini dell’applicazione delle norme sulla concorrenza. Sebbene la nozione funzionale di impresa non richieda che l’unità economica sia essa stessa dotata di personalità giuridica (35), la giurisprudenza le riconosce tuttavia una sorta di soggettività distinta e autonoma rispetto a quella delle entità che la costituiscono, che si sovrappone alla personalità giuridica di cui siano eventualmente dotate tali entità. Così, a partire dalla sentenza Akzo, la Corte non ha esitato a definire l’unità economica come un «ente» capace di violare le regole di concorrenza e di «rispondere di tale infrazione» (36). Nella prospettiva appena descritta, il fattore decisivo ai fini dell’imputazione della responsabilità della società madre per il comportamento anticoncorrenziale della controllata sarebbe dunque la loro condotta unitaria sul mercato (37), che connette insieme in un’unica unità economica più entità giuridicamente indipendenti.>> p. 35

La seconda ragione non è molto chiara e dunque condivisibile: sembra una tautologia e non mostra l’iter  logico seguito per arrivare alla conclusione

Comunque l’AG ammette che con la prima ragione non si potrebbe estendere la responsabilità al caso opposto (quello de quo) e cioè a quello della responsabilità discendente; mentre con la seconda ragione ciò è possibile, §§ 37-38

Come detto , la preferenza dell’AG cade sulla seconda ragione , §§ 40 e 44-45.

Il nucleo centrale del ragionamento è al paragrafo 46 dov’è vuole spiegare come si concilia questa regola con il principio di responsabilità personale: <<Poiché tale fondamento è del tutto indipendente da una qualche colpa della società madre (54), l’unico modo per conciliarlo con il principio della responsabilità personale è ritenere che tale principio operi a livello dell’impresa nel senso del diritto della concorrenza, ovvero a livello dell’entità economica che ha colpevolmente commesso l’infrazione (55). Tale entità, in quanto soggetto economico che agisce unitariamente sul mercato, è responsabile perché una delle sue componenti ha agito in modo da violare le regole sulla tutela della concorrenza (56). Tuttavia, non essendo tale entità dotata di soggettività giuridica, l’infrazione alle regole di concorrenza va imputata a una o, congiuntamente, a più entità alle quali potranno essere inflitte ammende (57). In effetti, benché le norme di concorrenza dell’Unione si rivolgano alle imprese e siano ad esse immediatamente applicabili, indipendentemente dalla loro organizzazione e forma giuridica, risulta tuttavia dalla necessaria effettività dell’attuazione di tali norme che la decisione della Commissione volta a reprimerne e a sanzionarne la violazione debba essere indirizzata a soggetti‑persona nei cui confronti sia possibile agire a fini esecutivi per ottenere il pagamento della relativa ammenda >>.

Il ragionamento non è molto lineare. Giuridicamente ritenere responsabile un’ <<entità economica>> (come un gruppo)  che non sia entità giuridica è un po’ problematico: soprattutto quando la conseguenza si basa sul solo fatto che una delle sue componenti  ha violato le regole dell’agire giudicico. Il superamento della personalità giuridica deve avere alla base una ragione molto forte e cioè giuridicamente dotata di senso, come ad esempio l’abuso della personalità giuridica.

in breve dice l’AG che i passi logici da compiere sono tre : <<49.  Il primo passo è l’accertamento dell’influenza determinante della società madre sulle controllate. Il secondo consequenziale passaggio è l’individuazione di una singola unità economica. L’influenza determinante è condizione necessaria affinché ci sia un’unità economica, cioè un’unica impresa in senso funzionale.

  1.     A questi due passaggi ne segue un terzo: l’attribuzione degli obblighi relativi al rispetto delle regole sulla concorrenza e della responsabilità per averle colpevolmente violate all’impresa unitaria così individuata, risultante da più soggetti giuridici distinti.
  1.     L’ultimo passaggio consiste nella concreta allocazione della responsabilità per l’infrazione commessa dall’impresa alle singole entità che la compongono, le quali, essendo munite di personalità giuridica, possono essere centro di imputazione di tale responsabilità e sopportarne le relative conseguenze in termini finanziari.
  1.     In questo modello ricostruttivo dell’unità economica non ci sono ragioni logiche per escludere che l’allocazione della responsabilità possa operare non solo in senso «ascendente» (dalla controllata alla società madre), ma anche in senso «discendente» (dalla società madre alla controllata).>>

Da ultimo l’AG indica le condizioni affinché la controllata risponda della condotta illecita della controllante: <<è, inoltre, necessario che tali controllate abbiano preso parte all’attività economica dell’impresa diretta dalla società madre che ha materialmente commesso l’infrazione.>> ,§ 56

In altri termini <<nel caso di responsabilità ascendente [responsabilità della madre per condotta delal figlia], in cui le controllate adottano un comportamento anticoncorrenziale nel quadro generale del potere di influenza della società madre, tale potere è sufficiente sia a individuare un’unità economica sia a fondare la responsabilità congiunta della società madre. Nel caso inverso, di responsabilità discendente [responsabilità della figlia per condotta della madre: come nel caso de quo], in cui è la società madre a commettere l’infrazione, l’unitarietà dell’attività economica risulterà – oltre che dall’influenza determinante esercitata dalla prima – dal fatto che l’attività della controllata è, in qualche modo, necessaria alla realizzazione della condotta anticoncorrenziale (per esempio perché la filiale vende i beni oggetto del cartello) (70). Poiché la nozione funzionale d’impresa in quanto unità economica attiene al concreto atteggiarsi di più entità giuridiche sul mercato, i suoi esatti confini vanno delineati proprio con riferimento alle attività economiche che tali entità svolgono e al ruolo che esse rivestono all’interno del gruppo societario: da un lato, l’influenza determinante esercitata dalla società madre, dall’altro, l’attività della o delle controllate oggettivamente necessaria a concretizzare la pratica anticoncorrenziale>> § 57

Nella sezione 5 l’AG affronta il tema della estendibilità di questo ragionamento, nato nella nel settore del Public enforcement e(erogazione di sanzioni), al private enforcement e cioè al risarcimento dei danni. Afferma questa estendibilità, § 66.

Il giudizio si può condividere astrattamente: non c’è motivo per differenziare.

Il problema tecnico giuridico è nu altro: che il diritto al risarcimento dei danni in generale in tutta la tort law europea è di competenza nazionale, non europea. Anche qui allora -come altrove: proprietà intellettjuale- c’è la dicotomia tra un settore appunto di competenza europea e le misure rimediali di competenza nazionale

Sul punto l’AG ricorda il precedente Skanska del 2019 secondo cui la legittimazione passiva alla domanda risarcitoria è di competenza Europea.

Si tratta forse della questione più complessa, attenendo al riparto normativo tra due ordinamenti Nazionale ed europeo: da un lato, lasciare il contenuto delle misure rimediali in toto ai diritti nazionali pregiudica l’uniforme applicazione del diritto europeo armonizzato; dall’altro e all’opposto, imporne una lettura europea significa vanificare la cometenza normativa nazionale.

Sospensione prefettizia illegittimità dell’attività commerciale (da emergenza COVID 19) e risarcimento del danno conseguente

Il prefetto di Napoli nell’aprile 2020 sospendeva l’attività commerciale di un’impresa, che vendeva materiali elettrici, non ritenendola funzionale alla filiera ammessa dal DPCM.

Il TAR Napoli 04.02.2021 n° 789/2021 reg. prov. coll. – 1219/2020 reg. ric., Sonepar Italia S.p.A. – So c. U.T.G. – Prefettura di Napoli, ed altri, ritiene illegittima la sospensione prfettizia e liquida il danno in euro 5.000 per i giorni di spensione (dal 9 al 23 aprile, poi essendo il provvedimenot decaduto perchè a tempo e non reiterarto).

Il giudice si diffonde dapprima sulla illegittimità del provveduimento amminstrativo e in particolare sull’elemento sogtgettivo: <<Passando all’elemento soggettivo, sul punto giova premettere che, in presenza di illegittima attività provvedimentale, la responsabilità dell’amministrazione non può farsi conseguire, in via diretta e automatica, all’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo. Tuttavia, l’illegittimità del provvedimento lesivo, pur non identificandosi nella colpa, costituisce un indizio (grave, preciso e concordante) idoneo a fondare una presunzione di colpa, che la p.a. può vincere solo dimostrando elementi concreti da cui possa evincersi la scusabilità dell’errore (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 4.9.2015, n. 4115; Sez. V, 9.3.2015, n. 1182; id., 22.11.2017, n. 5444; Sez. III, del 7.6.2016, n. 3858). Nel caso di specie, osserva il Collegio che la evidente e grave erroneità che inficia la determinazione annullata, l’assenza di complesse valutazioni rimesse all’organo competente, unitamente alla mancanza di elementi idonei a rendere scusabile l’operato dell’Amministrazione, che, come sopra detto, ha omesso di vagliare con la dovuta attenzione la documentazione corredante l’istanza presentata dalla ricorrente, rende palese la violazione delle regole basilari di imparzialità, correttezza e buona fede e quindi la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpevolezza (cfr., per tutte, Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.6.2001, n. 3169; id., Sez. III, 1.4.2015 n. 1717; Cassazione civ., S.U., 22.7.1999, n. 500)>>, § 7.

Poi passa alla determinazione del danno da mancate vendite (lucro cessante):

<<il Collegio non condivide i criteri seguiti ed i conteggi esposti nella relazione di stima effettuata dal perito di parte, poiché tali conteggi, oltre a non essere supportati da una concludente ed affidabile documentazione contabile (non sono state allegate le scritture contabili ed i bilanci), si fondano esclusivamente sul raffronto tra il fatturato conseguito, nel medesimo periodo (mese di aprile), rispettivamente nell’anno 2019 e nell’anno 2020, laddove il riconoscimento della domandata posta risarcitoria (mancato guadagno) impone l’onere di dimostrare, previa stima dei beni presumibilmente oggetto di vendita nel periodo considerato, quale sarebbe stato l’utile netto conseguibile dal danneggiato mediante la vendita dei beni prodotti; utile costituito dalla differenza tra l’ordinario prezzo di vendita ed i costi fissi e variabili della produzione che sarebbe stato necessario sostenere>>

Non potendosi procedere in tale modo per insufficienti allegazioni del ricorrente, procede in via equitativa ex 1226 cc:

<<Pertanto, considerando la parziale ed ordinaria erosione del fatturato conseguito da parte dei costi sopra indicati, il carattere eccezionale e straordinario dell’emergenza pandemica che, a causa delle adottate misure di contenimento sociale, ha indubbiamente ridotto le quote di mercato cui erano normalmente rivolti i prodotti della ricorrente, – circoscrivendole prevalentemente, e dunque limitandole, alla domanda proveniente da imprese ritenute ex lege essenziali per l’economia nazionale -, nonché la media dei prezzi di vendita dei prodotti commercializzati come desumibile dalla tabella allegata in atti, l’utile non conseguito dalla ricorrente a seguito della illegittima sospensione della sua attività può essere equitativamente determinato nel complessivo importo di € 5.000.00 (cinquemila/00), espresso in valori monetari attuali.>>

Sugli interessi legali come danno da ritardo nella compensazione, così osserva:

<<Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso; in siffatta ultima ipotesi, gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell’illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio (Cass. Sez. Unite 17.2.1995 n. 1712).

Ritiene il Collegio che tale danno possa certamente presumersi, nel caso di specie, in ragione della qualità soggettiva della ricorrente che rende prevedibile l’impiego fruttifero del danaro secondo i modi e le forme tipiche dell’imprenditore, con conseguente liquidazione in applicazione del criterio degli interessi, al tasso legale, su tutte le somme liquidate, via via rivalutate dal fatto generatore del danno, secondo l’orientamento ormai pacifico dei giudici di legittimità (cfr.: Sez. Un. 14/1/09 n. 557; Sez. Un. 11/1/08 n. 584; Sez. Un. 5/4/07 n. 8521; Sez. Un. 17/2/95 n. 1712).

Pertanto, si rivela equo, ai sensi del secondo comma dell’art. 2056 c.c., adottare, come criterio di risarcimento del pregiudizio da ritardato conseguimento delle somme dovute (cd. lucro cessante), quello degli interessi legali, stante anche il ridotto arco temporale intercorso tra la commissione dell’illecito ed il riconosciuto risarcimento pecuniario.

In definitiva, alla ricorrente deve essere riconosciuto il pregiudizio da ritardato conseguimento delle somme dovute (cd. lucro cessante), da liquidarsi mediante il metodo degli interessi legali (cfr.: Cassazione civile sez. I, 19/03/2020, n.7466).

L’ammontare dei danni, liquidato all’attualità in Euro 5.000,00, dovrà dunque essere devalutato al momento del verificarsi del fatto illecito (23 aprile 2020, data di cessazione degli effetti dell’impugnato provvedimento interdittivo) e dovranno essere calcolati gli interessi sul capitale così devalutato fino alla data di deposito della sentenza (segnante la trasformazione dell’obbligazione risarcitoria da debito di valore in debito di valuta: cfr. Cass. n. 24896/05; Cass. n. 8214/04), ferma restando la corresponsione degli interessi sull’intero importo dovuto (residuo capitale maggiorato di rivalutazione monetaria e danno da ritardo) dalla data di deposito della sentenza al soddisfo (cfr. Sez. Un. 10/7/17 n. 16990; conf. Cass. 10/10/14)>>, sempre § 7.