Trib. Venezia sent. 1308/2023 del 17.07.2023, RG 4971/2021, rel. Tosi:
<<Venendo al bilanciamento concreto fra gli opposti inadempimenti, va osservato innanzitutto che la vicenda si è dipanata in tempi assai lunghi, e che agli inadempimenti rispettivi non sono seguite iniziative coerenti e tempestive: parte attrice, a fronte della registrazione in malafede del 2014, ha continuato ad usare il marchio licenziato, ha corrisposto royalties fino a giugno 2017, agendo poi solo nel 2017 per la nullità del marchio avversario, ma continuando anche oltre ad usare il suo marchio (in abbinamento al “proprio” grifone); nel contempo ha rallentato lo sviluppo dei prodotti, quale concordato in contratto, e ha cessato di corrispondere royalties con il giugno 2017. Il convenuto, per parte sua, pur avendo lamentato il rallentamento dello sviluppo dei prodotti, e pur avendo ritenuto risolto il contratto a tenore della sua lettera del 6/4/2017, ancora in missive del 2019 lamentava l’inadempimento di controparte per il fatto che essa non trasmetteva rapporti di vendita né corrispondeva royalties; e solo nel 2021 agiva per il pagamento delle royalties fino a settembre 2017, non affatto a titolo di risarcimento (come fa ora) ma a titolo di compenso. L’attrice poi, dopo l’esito favorevole della sentenza sul marchio nel 2019, ha atteso il 2021 per agire con l’intento di inficiare il contratto. Si è avuto dunque un trascinamento del rapporto “a basso regime” dopo la violazione, con tolleranze reciproche, sì che non può dirsi che alcuno degli inadempimenti opposti sia stato prevalente e determinante.
Ciò detto, la conseguenza che il Collegio ne trae non è comunque quello del semplice rigetto delle opposte domande risolutorie per inadempimento – secondo una giurisprudenza pur attestata in Cass. 18320/2015 – ma, in omaggio ad una linea giurisprudenziale più recente (Cass. 6675/2018, 19706/2020) quello della presa d’atto della non volontà delle parti – ambedue – di proseguire il rapporto. Si tratta di un approdo – costruito da Cass. 6675/2018 come accertamento della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, altrove come accertamento del mutuo dissenso – che rispondente alla realtà del sopravvenuto disinteresse delle parti all’adempimento, e per la quale non ha senso né è foriero di utilità alcuna persistere a ritenere astrette le parti ad un insieme di patti che possono essere adempiuti solo nella collaborazione, ma nel quale nessuna delle due crede e dal quale nessuna delle due ritiene di ricavare utilità. La risoluzione ha solitamente effetto dal maturare del fatto che impedisce la prosecuzione del rapporto (impossibilità sopravvenuta o dissenso, o inadempimento). Poiché però la domanda risolutoria della attrice è stata proposta in via subordinata ad una principale che includeva la tesi della nullità parziale e per il resto la prosecuzione del rapporto, la risoluzione deve operare dalla data della pronuncia, perché solo da questa l’attrice apprende del rigetto della sua domanda principale, e può condursi di conseguenza.>>
Giudizio di buon senso. REsta da capire come si concili col principio dispositivo (Iudex iuxta alligata et probata iudicare debet) se nessuna parte aveva avanzato simile domanda (come di solito capita).
Interessante la precisazione successiva:
<<Va ora ricordato che rimane pur sempre operativo fra le parti l’art. 12 del contratto, che regolava l’esaurimento degli effetti dello stesso “in caso di risoluzione… per qualunque motivo” e segnatamente quella parte di esso (A) che autorizzava l’adempimento degli ordini e la produzione a ciò finalizzata, e la vendita delle scorte. Tale articolo si applica avuto riguardo alla data della risoluzione, e dunque dalla pronuncia.
Esaurito magazzino e ordini, dovranno cessare produzione e commercializzazione. Si dà dunque ordine inibitorio (con effetto dall’esaurimento di scorte e ordini) quanto alla produzione e commercializzazione dei prodotti a marchio, con congrua penale, che si stima in euro 100 al giorno, in caso di inottemperanza.
La esistenza di tale patto preclude invece la pronuncia di ritiro di quanto è già stato immesso in commercio, giacché ciò è avvenuto legittimamente.
Alla realizzazione da parte del licenziatario, per la durata del rapporto, di fatturato con uso del marchio licenziato (e così per quel fatturato che sarà realizzato anche ex art. 12 lett. A) del contratto, come prevede il comma 2 dell’articolo) consegue il diritto del licenziante al pagamento delle royalties a termini di contratto.
Stante il pari inadempimento, non spetta al convenuto ristoro per il mancato sviluppo del programma di promozione convenuto.
Parte attrice invece chiede il pagamento della indennità ex art. 13 del contratto.
L’articolo prevede che “in ogni caso di cessazione del presente contratto…” il licenziante indennizzi il licenziatario per il lavoro svolto per aumentare il valore dei marchi, subordinatamente al raggiungimento di un fatturato cumulativo di euro 1.000.000. tale indennità è prevista in misura pari al 50% del valore del
marchio “da determinarsi da parte di un esperto indipendente incaricato dalle parti. Nel caso in cui non si trovasse un accordo in merito alla scelta dell’esperto entro 30 giorni, si procederà secondo la logica dell’arbitrato. Tale indennità verrà erogata in forma di pagamento” .
La clausola è valida, essendo contenuta in contratto che per quanto risulta fu redatto espressamente per il caso, ed ha contenuto determinato, riconoscendo l’indennità in ragione dell’oggettivo apporto della licenziataria al valore del marchio, una volta raggiunta una certa soglia di fatturato; e non si vede squilibrio contrattuale in tale previsione (fermo che un generico “squilibrio” non può inficiare una clausola pattuita) dato che l’indennità si ancora all’effettivo valore raggiunto dal marchio, e dunque all’effettivo apporto dato dalla licenziataria ad un marchio che il licenziante può ulteriormente mettere a reddito. Solo, stante la previsione secondo cui le parti convengono di rimettersi, quanto al valore del marchio, alla decisione di un terzo, qualificabile come arbitratore ex art. 1349 c.c., e dunque ad una determinazione contrattuale, il fatto che nella specie tale determinazione non sia intervenuta né risulta le parti abbiano chiesta (in verità non risulta neanche che si siano confrontate sulla scelta dell’esperto) impedisce che il giudice possa riconoscere la indennità; non impedisce però che il giudice possa verificare la sussistenza del presupposto per il riconoscimento dell’indennità, ossia il raggiungimento del limite di fatturato>>.