Sulla questione dell’onere della prova in tema di vizi della cosa venduta sono intervenute le sezioni unite della Cassazione con sentenza 3 maggio 2019 numero 11.748, relatore Cosentino.
Il Collegio evidenzia che fino al 2013 non c’erano incertezze giurisprudenziali: vigeva l’orientamento per cui tocca al compratore provare i difetti. Nel 2013 questo orientamento è stato incrinato da una pronuncia, secondo cui -in applicazione della nota pronuncia di legittimità sez. un. 13533 del 2001– al compratore basta allegare l’inesatto adempimento o denunciare la presenza di vizi e difetti; rimane a carico del venditore-debitore l’onere di dimostrare di aver consegnato una cosa conforme o comunque priva di vizi. Successivamente alcune pronunce hanno seguito questo innovativo indirizzo, mentre altre sono tornate a quello precedente.
La Corte, però, in relazione ai diritti e doveri generati dal contratto di compravendita, evidenzia oggi che si può parlare di obbligazioni in senso tecnico, cioè aventi ad oggetto una prestazione dovuta dal venditore, solo per quella di cui al n. 1 dell’articolo 1476 cc (non considera il n. 2 nè l’evizione di cui al n. 3: § 12).
Invece per la garanzia da vizi (n. 3 del medesimo articolo), non si tratta di obbligazione in senso tecnico, in quanto non è promessa una prestazione da eseguirsi successivamente alla stipula da parte del venditore (§§ 17-21).
Alcuni per questo motivo qualificano la garanzia a carico del venditore come un indennizzo di tipo assicurativo (§ 15). Tale proposta però non viene accolta dal Collegio perché non sono ad esso riconducibili da un lato i rimedi della risoluzione e della riduzione di prezzo (anche se prescindono dalla colpa del venditore), dall’altro nemmeno quello del risarcimento del danno, che presuppone colpa nel venditore (art. 1494 cc), anche questo anomalo rispetto ai rimedi assicurativi.
Si precisa tuttavia (§ 16) di soffermarsi su questo aspetto (solo) per evidenziare che la garanzia da vizi non costituisce un rapporto obbligatorio sorto dalla compravendita. Questo contratto ha infatti per oggetto il modo di essere attuale della cosa dedotta in contratto e non una prestazione futura, come invece necessario per ravvisare un’obbligazione (§ 17).
Si aggiunge poi -ed è il punto forse più interessante- che questa considerazione non impone di uscire dal campo dell’inadempimento o meglio dell’inesatto adempimento del contratto (§ 22; la distinzione è più chiara adoperando i termini “inadempimento totale”/“inadempimento parziale”, il secondo potendo essere quantitativo oppure qualitativo). Solo che si tratta di inadempimento appunto non di un’obbligazione, bensì del contratto: o meglio in inadempimento della promessa di un certo risultato traslativo, sorta con la stipula della vendita. Quindi si tratta sempre di una violazione della lex contractus, anche se non nella forma dell’obbligo inadempiuto: <<si tratta di una responsabilità che prescinde da ogni giudizio di colpevolezza del venditore e si fonda solo sul dato obiettivo della esistenza dei vizi>> (§ 24).
Si pone allora, direi, il più ampio problema del se e in che misura possa applicarsi a questa (o altre) violazione della lex contractus, diversa dall’inadempimento di obbligazione (vizi della res venduta), la disciplina dell’obbligazione e del contratto in generale, nei casi non regolati dalla disciplina specifica della compravendita (la quale, in linea di massima, costituirà invece norma speciale e dunque prevalente sulle norme incompatibili, presenti nelle discipline generali dell’obbligazione e del contratto).
Qui va pure incidentalmente ricordato, a differenza da quanto pare dire la S.C., che anche nell’inadempimento delle obbligazioni si risponde a prescindere dalla colpevolezza: basta solamente l’oggettiva difformità del comportamento tenuto da quello dovuto (l’art. 1218 è chiarissimo). Molti autori e giurisprudenza pensano il contrario (richiedono cioè l’elemento della colpa): la differenza tra le due teorie (soggettiva e oggettiva) in tema di inadempimento, però, è più declamatoria che reale e comunque è molto più ridotta di quello che potrebbe sembrare (forse inesistente). Approfondire questo punto richiederebbe di affrontare il tema della doppia accezione di diligenza, magistralmente studiato da Mengoni nel suo saggio del 1954 <<Obbligazioni ” di risultato ” e obbligazioni ” di mezzi “>>: duplice accezione che però risulta non troppo convincente, anche se ancora in auge (ad es. alla base della teoria del duplice ciclo causale proposta da Cass. n° 18392 del 26/07/2017, rel. Scoditti). Il punto non può essere qui sviluppato ulteriormente.
Se così è, la disciplina del riparto dell’onere della prova tra venditore e compratore nelle azioni edilizie, non è compreso nell’ambito applicativo dei principi fissati dalla cit. sentenza sezioni unite del 2001, che riguardava l’inadempimento delle obbligazioni (§ 26). In tale sentenza l’esito decisionale era basato sul principio della presunzione di persistenza del diritto (id est dell’obbligazione), dicono le S.U. di oggi (in verità anche su quello della vicinanza alla prova): presunzione che non è applicabile al caso dei vizi della cosa venduta, circa i quali non può ravvisarsi alcuna obbligazione (§ 27).
Il riparto dell’onere probatorio in materia di vizi della cosa venduta, allora, non può che gravare sul compratore: il che risulta idoneo anche a soddisfare le esigenze pratiche espresse dal principio della vicinanza alla prova e del tradizionale canone negativa non sunt probanda, indicate dalle sezioni unite del 2001 (§ 28-29).
Le S.U. di oggi ricordano che il principio di vicinanza alla prova fu enunciato compiutamente per la prima volta proprio dalla cit. Cass. s.u. 15533/2001 e che esso trova ancoraggio nell’art. 24 Cost.
Al § 31 la S.C. ricorda che talora il principio di vicinanza/distanza della prova è utilizzato <<in sostanza utilizzato per distinguere i fatti costitutivi della pretesa (identificati con quelli che sono nella disponibilità dell’attore, che il medesimo ha l’onere di provare) dai fatti estintivi o modificativi o impeditivi, identificati con quelli che l’attore non è in grado di provare e che, pertanto, devono essere provati dalla controparte. In pronunce successive, per contro, il criterio della vicinanza/distanza della prova risulta scollegato dal disposto dell’art. 2697 c.c. e viene utilizzato come un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto, idoneo a spostare l’onere della prova su una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata in base a detta partizione>>. Mi pare tuttavia preferibile il primo dei due orientamenti e cioè quello per cui il problema sorge quando è difficile distinguere fatti costitutivi e fatti estintivi/impeditivi. Se invece la distinzione è chiara, non può il giudice temperarla cioè modificarla in base a generiche esigenze di equità social-processuale. Egli semmai potrà sollevare questione di costituzionalità per contrasto con l’art. 24 Cost.: da noi il controllo di costituzionalità non è diffuso, come pensa (esplicitamente o implicitamente) certa dottrina, ma fa capo solo alla Corte Costituzionale.
Non è però necessario -aggiunge la S.C.- prendere posizione tra questi due orientamenti: entrambi nel caso specifico conducono infatti alla stessa conclusione e cioè che è il compratore gravato dell’onere di provare il vizio della cosa acquistata, per esercitare le azioni edilizie (§ 32). Qui potrebbe però obiettarsi qualcosa alla linearità della motivazione. Così dicendo, infatti, non è chiaro se la S.C. affermi (v. appena sopra) che tale riparto probatorio derivi direttamente dall’art. 2697 cc oppure da un suo “temperamento” apportato dal giudice (nel qual caso dovrebbe precisare e giustificare questo suo ruolo paralegislativo).
La S.C. tocca poi la questione dell’inadempimento parziale (o inesatto adempimento; § 33), che era stato parificato dalla pronuncia del 2001 all’inadempimento totale: con però molte critiche dottrinali su questo punto. Il Collegio implicitamente le tiene in considerazione e osserva: <<La prova dell’inesatto adempimento, al contrario, consiste nella prova di un fatto positivo diverso da quello atteso dal creditore; si tratta di una situazione più articolata e più difficilmente inquadrabile in schemi rigidamente predeterminati, potendo risultare necessario procedere ad una verifica concreta, nelle diverse tipologie di controversie, su quale sia la fonte di prova che meglio può offrire la dimostrazione dell’inesattezza dell’adempimento e su quale sia la parte che più agevolmente può accedere a tale fonte>>. La Corte sembra quindi dire che, nel caso di inadempimento inesatto e alla luce del principio negativa non sunt probanda (e, si può aggiungere anche della vicinanza alla prova, del quale il negativa non sunt probanda costituisce un’applicazione), non si può stabilire in astratto quale sia la parte più vicina alla prova e quindi quale sia quella invece da onerare. L’inciso <<potendo risultare necessario procedere ad una verifica concreta… su quale sia la fonte di prova che può meglio offrire la dimostrazione delle inesattezze di inadempimento>> sembra infatti un’apertura verso la soluzione, secondo cui, nei casi dubbi, spetta al giudice caso per caso assegnare l’onere probatorio alla parte meglio attrezzata per farvi fronte. Si tratterebbe di una regola ex post, sorta col giudizio (o meglio in sentenza) e quindi di per sè inopportuna, dato che le regole dovrebbero essere conoscibili ex ante. Però se la legge è muta e non c’è concordia dottrinale, questa soluzione non è facilmente evitabile. Il punto è di notevole importanza teorica e pratica.
In ogni caso questo passaggio del § 33 è un obiter dictum e la corte lo riconosce al § seg. Al § 34 infatti osserva che la questione sub iudice (vizio della cosa venduta) esula dall’inadempimento delle obbligazioni, sicchè non occorre prendere posizione sul predetto problema dell’onere probatorio nel caso di inesatto adempimento. E’ invece <<sufficiente evidenziare che la prova dell’esistenza del vizio della cosa è una prova positiva (di un fatto costitutivo del diritto alla risoluzione o modificazione del contratto) e pertanto, proprio alla stregua del canone negativa non sunt probanda, va giudicata più agevole di quella (negativa) della inesistenza del vizio medesimo>>.
Infine la Corte ricorda che questa impostazione è confortata:
i) dall’orientamento della Suprema Corte in tema di vizi della cosa nel contratto di appalto e di locazione (§§ 35-37) ;
ii) dall’orientamento della Corte di Giustizia UE in tema di onere probatorio per vizi della cosa acquistata dal consumatore (CGUE 4.6.15 C-497/13, Froukje Faber c. Autobedrijf Hazet Ochten BV, §§ 49-57).
Circa il diritto europeo, segnalo due proposte di direttiva UE (ora divenute però inefficaci, precisamente il 20 maggio 2019, come si legge nella pagina web delle direttive, sotto indicata). 1° Quella sulle forniture digitali 9.12.2015 (COM(2015) 634 final – 2015/0287 (COD)) pone in modo espresso l’onere della prova a carico del fornitore: <<Art. 9 Onere della prova: 1. L’onere della prova riguardo alla conformità al contratto al momento indicato all’articolo 10, è a carico del fornitore. 2. Il paragrafo 1 non si applica nel caso in cui il fornitore dimostri che l’ambiente digitale del consumatore non è compatibile con i requisiti di interoperabilità e altri requisiti tecnici del contenuto digitale e nel caso in cui il fornitore abbia informato il consumatore di tali requisiti prima della conclusione del contratto. 3. Il consumatore collabora con il fornitore per quanto possibile e necessario per definire il proprio ambiente digitale. L’obbligo di collaborazione è limitato ai mezzi tecnicamente disponibili che sono meno intrusivi per il consumatore. Se il consumatore non collabora, l’onere della prova riguardo alla non conformità al contratto è a carico del consumatore.>>. Dal che si desume che sul consumatore gravi solo l’onere di denuncia o di allegazione del vizio/difetto. 2° Invece nella contemporanea proposta di direttiva sulle vendite online (Proposta relativa a determinati aspetti dei contratti di vendita online e di altri tipi di vendita a distanza di beni 9.12.2015 COM(2015) 635 final – 2015/0288(COD)) rimane l’impianto della dir. sulla vendita 1999/44, dato che non parla di onere della prova della conformità/difformità ma si limita a dire: <<Articolo 8 Momento rilevante per la determinazione della conformità al contratto : 1. Il venditore risponde di qualsiasi difetto di conformità al contratto sussistente al momento in cui: (a)il consumatore o un terzo da lui designato e diverso dal vettore acquisisce il possesso fisico del bene, oppure (b) [sta scritto (a): ma è evidente errore] il bene è consegnato al vettore scelto dal consumatore, qualora tale vettore non sia stato proposto dal venditore o il venditore non proponga alcun mezzo di trasporto. 2. Qualora il bene sia installato dal venditore o sotto la sua responsabilità, il consumatore acquisisce il possesso fisico del bene nel momento in cui l’installazione è terminata. Qualora il bene sia concepito per essere installato dal consumatore, il consumatore acquisisce il possesso fisico del bene allo scadere di un lasso di tempo ragionevole per effettuare l’installazione, e comunque non oltre 30 giorni dal momento di cui al paragrafo 1. 3. Qualsiasi difetto di conformità al contratto che si manifesta entro due anni dal momento di cui ai paragrafi 1 e 2 si presume che fosse sussistente in tale momento, salvo che ciò sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità.>>. Il § 3 così allunga a due anni il termine semestrale previsto per l’analoga presunzione nella dir. 1999/44 , art. 5 § 3).